Non si crederebbe che un minuto filo d’erba contenga tanto incisivo senso politico. Che interpreti il bisogno di partecipazione allargata e di reale tutela e valorizzazione delle forze culturali di una città. Ma se i fili sono tanti, e formano un prato, una comunità, una piccola
polis appunto, nell’immediatezza mentale e icastica di
Melita Rotondo (Napoli, 1954) i sottili steli assumono il peso di una fervida dichiarazione.
L’artista parte da una poesia di parole, ispirandosi a Rocco Scotellaro, e approda a una poesia per immagini, liricamente suggestiva ma dirompente come un manifesto. Il suo procedere post-concettuale, individuante il messaggio in simboli estetici di acuta comunicatività, ne avvicina l’arte più a elastici e caldi versi in ideogrammi che ai freddi teoremi del concettuale storico.
Sull’antica scalinata dell’edificio universitario, inevitabile simbolo del potere generativo della cultura, genera lei stessa, con pazienza e cura monacale, quasi in omaggio alle origini del luogo, un vero e proprio prato, vincendo la sfida di far nascere il buono dalla pietra.
Miracolo possibile grazie a particolari accorgimenti botanici, ma di effimera durata se non sollecitato da continua attenzione e volontà, proprio come morituri sono i semi della creatività se non trovano il giusto
humus nelle politiche culturali.
Un rito performativo e meditativo dal forte impatto architettonico, che altera con multisensoriale presenza la percezione dello spazio. Il profumo, la morbidezza al passo, la vivacità cromatica conferiti dall’erba alla severa salita di scalini stigmatizzano come anche le asperità del percorso diventino percorribili, se l’individualità si scioglie nella collaborazione solidale, in arte come nella vita.
Se la Land Art aveva portato l’intervento dell’uomo nella natura e, successivamente, la natura nelle gallerie, qui Melita Rotondo quadra il cerchio: è la spontaneità vegetale, seppur indotta, a elaborare un costruito umano, ma esposto alle modificazioni atmosferiche.
La forza della germinazione suggerita in potenza nella seconda installazione, l’“albero-mandala” di terra e semi nella Sala degli Angeli – e qui la somiglianza con le scritture orientali è cosciente e voluta – mette invece in scena le stesse evocate energie suscitate dall’Arte Povera, quelle immaginative del concetto e quelle reali della tensione fisica degli elementi. Ulteriore metafora del bisogno di nutrimento di ogni manifestazione artistica, oltre che organica.
Anche la tecnologia si armonizza con uomo e natura nella terza opera, che integra l’antico pavimento in cotto, pregno del magnetismo antropico dei secoli, con le cyber-rielaborazioni fotografiche di petali, quasi irriconoscibili e anzi in mimesi con le piastrelle, e con la resiliente vitalità di una pianta di fragole spuntata dal vano di una mattonella asportata.
Un giusnaturalismo etico in atto, che apprende dai processi naturali la lezione della solidarietà e della tenacia.