Il
solito conflitto cromatico e simbolico tra bianco e nero? Una mostra doppia con
un sottotesto per ogni facciata. La chiave di volta per interpretare il
conflitto si trova al varco della galleria. I mattoni verniciati del muro
ideato da
Nicola Gobbetto (Milano,
1980) aprono una breccia nel percorso espositivo: all’ingresso neri e
all’uscita bianchi, proprio come le pareti della galleria.
Un
intervento sulla facciata, ma certo non un’operazione di facciata. Troppo
facile interpretare la dialettica cromatica come una lotta fra la vita e la
morte. Gobbetto piuttosto si getta nella mischia, nel tentativo di armonizzare
il conflitto tra il candore del progresso scientifico e l’oscurità della
superstizione
in saecula
saeculorum.
Il
dittico ligneo
XIII-XX riporta
su tavola, con uno stile angolare e minimalista, l‛iconografia degli arcani
della Morte e del Giudizio, pescati da un comune mazzo di tarocchi.
Un’opera pregevole, considerando che siamo ancora
lontani dal periodo dei lumi. Un messaggio efficace come poteva essere la
pittura per gli analfabeti nel basso medioevo.
Con
la macchina del tempo – quello della nostra fruizione, tanto per intenderci –
Gobbetto invita a compiere un salto cronologico davanti alla mappa planetaria
su legno de
Il settimo cielo.
La tavola descrive le orbite circolari dei pianeti disegnate a matita, quando
gli uomini – di poca fede e molta scienza – credevano ancora che i pianeti
stessi fossero soltanto sette.
La loro descrizione è attestata dalla presenza
di altrettanti dischetti metallizzati che completano quello che sembra un
bersaglio essenziale, lontano dal pop-clamore dei
target alla
Jasper Johns.
Indaco accosta su stampa la fotografia di un bambino
italiano in grembiule (forse l’artista stesso) a una trama spiraliforme che
sembra fuoriuscire dalla sua fronte. Elogio dell’immaginazione infantile? Come
volevano i poeti romantici inglesi, giĂ prima di Verga. In questo caso, meglio
menzionare la radiotica, tecnica di riequilibrio energetico che conta numerosi
adepti in tutto il mondo. Una terapia complementare che può dare risultati con
tutti, animali e piante inclusi. Ma funzionerĂ anche con gli spazi espositivi?
Forse ci si trova di fronte a un revival della sensibilitĂ pittorica di
kleiniana memoria?
L’installazione
che dĂ il titolo alla mostra,
It’s a Kind of Magic, è invece un decagono in legno che evoca la forma
dei diagrammi utilizzati in radiotica. Un’opera criptica, che sintetizza la
tensione fra superstizione e scienza, tra il bianco e il nero della breccia
muraria che accoglie e congeda il visitatore.
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è affascinante vedere come mischiando citazioni colte e rimanendo nel campo dello sciamanico-superstizioso-religioso, si arrivi poi a soluzioni formali curiose, naif ma sepre cool nella loro saggiezza. Le orbite che diventano un bersaglio e così via. Tutto troppo facile. Mi sembra di leggere un libro di umberto eco "esercizi di stile". Dove lo stesso racconto viene riproposto in mille diverse variazioni. Quello che cambia è il tema del giorno: ultimamente va molto la relgione e la superstizione. Temi concettualmente interessanti perchè ruffiani nel rimanere inevitabilmente aperti e, per loro natura, "inconclusi". Temi ripresi (anche quì c'è una tradizione del 900, ma facciamo finta di niente) come reazione al "concettuale di ritorno" alla monk, wolfson,rees,creed, milf e teels.
Non credo che ci sia stata alcun intenzione di "affascinare" artificialmente e nessuna citazione colta usata al riguardo.Credo che l'artista non si esprima attraverso un percorso a cui giungere a soluzioni. Non ci vedo nulla di naive, pur sforzandomi, e nella saggezza non si ricerca il "cool" ma quasi sempre la Verita'.
Non ho mai avuto il piacere di conoscere l'artista in questione e devo dire che l'esibizione mi e' sembrata tutt'altro che banale, dove religione e superstizione ben poco c'entrano.Il linguaggio invece e' chiaramente espresso attraverso le opere di grande profondita' e che lasciano molto pensare. Una ricerca interiore e decisamente un grande salto di qualita' per l'artista, in una retrospettiva delle sue opere precedenti.L'arte inoltre, a beneficio di tutti,non puo' essere "conclusa",la natura non lo e', perfino la nostra esistenza e' un viaggio a cui nessuno puo' dare una "soluzione" finale.Mi e' piaciuto molto la raffigurazione personale delle due lame dei tarocchi, che esprimono la trasformazione interiore (dolorosa,personale, storie di vita vera) e la rinascita.Non ce' religione in tutto questo e la cosa e' stata di mio gradimento e commozione, i bambini indaco sono una realta' evidente e spesso trascurata.La nostra coscienza ha bisogno di artisti come Gobbetto per farci pensare, immaginare, aprire le coscienze.All'artista le mie felicitazioni, i miei complimenti e l'augurio di una carriera brillante.