Benevento prende vita nel piacevole dipanarsi di pagine d’arte contemporanea. Che si sfogliano lungo il Corso cittadino e nei sotterranei del Palazzo del Governo, dove, nell’ultimo anno, si sono svolte molte mostre capaci di fondere maestri storici e giovani affermati in un mix interessante di punti di vista sull’arte.
In C’era una volta un Re. La fiaba contemporanea, il tema esposto nel titolo è chiaramente sviluppato -anche didatticamente- lungo il tortuoso, ma ben risolto, percorso della mostra. Il tutto è accompagnato dalle note, intonate da Marina Abramovic, dell’inno nazionale iugoslavo ai tempi di Tito nel video The Hero, dedicato al padre, eroe della resistenza.
I lavori scelti per la mostra hanno come trait d’union di una visione fiabesca del reale. A partire dalla celebre produzione serigrafica di Mimmo Paladino per il Pinocchio di Collodi, accompagnata in mostra dall’opera in bronzo Pinocchio del 2004, in cui la staticità della scultura contrasta con la resa del legno e del movimento della corsa del burattino, con un uccellino che gli becca il piede.
Ma più che dai maestri, il cuore pulsante di questa mostra è costituito da una nutrita schiera di valenti giovani. Adrian Tranquilli dà l’avvio con un impressionante Batman crocifisso e sanguinante che si affaccia dalle pareti del dirimpettaio campanile della chiesa di Santa Sofia. Mentre Michael Lin, con l’installazione In sickness and in health, ricrea all’interno dello spazio museale una cappella nuziale, facendo rivivere l’idea di un luogo rituale mediante la realizzazione di un prezi
Sara Rossi è presente in mostra con un video, sempre bello da rivedere, Le Cocu Magnifique, del 2003, con un tema quanto mai attinente alla favola: Pulcinella che, con l’aiuto delle immagini stipate nella sua valigia, racconta un viaggio fantastico. Manfredi Beninati, che ha abituato il pubblico alle sue affascinanti wunderkammer, sospese fra vero e faceto, come quella vista alla 51° Biennale dell’Arte di Venezia, presenta un intervento site specific: 12 minuti di autoesilio, poco curato proprio nel punto nevralgico dell’interfaccia con il pubblico, una semplice scaffalatura laccata bianca con piantine finte che rende intenzionalmente inaccessibile lo spazio dell’opera, nel quale si realizza un’estremamente affollata salle de bain del Re. L’immaginario onirico è fortemente presente nell’opera di Johan Thurfjell in cui una maquette notturna di un villaggio nordico, con le sue casette illuminate, si svolge dal pavimento alle pareti, fino a riconnettersi sul soffitto della sala, simulando una relazione fra sinapsi: Receiver, appunto, è il titolo dell’opera.
Ancora, Tacita Dean, artista mai banale, narra il viaggio finale della vita di Edipo in cinque fotoincisioni dal titolo Blind Pan. Tutto il percorso della mostra è punteggiato da piccoli personaggi creati da Giovanni Albanese, che prendono vita dall’assemblaggio di objets trouvés, come lampadine fiammeggianti, pezzi di biciclette, gambe di tavolini, visiere, elmetti, mettendo così in piedi un piccolo esercito di simpatiche creaturine antropomorfe.
Molti altri gli artisti interessanti in mostra, due su tutti Matthew Barney e Kara Walker, entrambi presenti, però, con piccole opere che mal li rappresentano.
Al termine della panoramica un dubbio s’insinua: come si spiega la presenza in mostra di tante opere datate e già viste altrove? Forse con l’antica idea della lentezza di diffusione dell’arte dal centro alle periferie? Non si dimentichi, però, che nell’epoca di internet e delle compagnie low-cost i rapporti fra i due poli, oramai, sono spesso invertiti.
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