Born Out è il titolo della mostra: fuori, al di là, alla ricerca di una consapevolezza nuova che non faccia muro contro muro con la realtà. Il lavoro di questi artisti, nonostante sia in alcuni casi fortemente politico, non cerca uno scontro, si inserisce nel quotidiano senza far troppo rumore.
Zak Manzi, “dimessosi” ormai dal ruolo di artista eversivo, che si opponeva al sistema negando a quest’ultimo le proprie parole, ha scelto di parlare con la propria voce e i suoi contenuti risultano tanto più urgenti quanto più semplici ed evidenti. Presenta un tg-cartoon con un personaggio animato che fa il verso ad Emilio Fede, alla
Cristina Rauso immagina, invece, di profumare di hairwick le stanze degli ospedali e associa un senso di piacere ad una condizione di precarietà fisica e psicologica. Le sue immagini dai toni pastello sono delicate. Ci invita: “Close your eyes”, “You decide where to be”…sembrano le parole di uno spot pubblicitario e ci convince quasi a rilassarci; ci guardiamo intorno e siamo in un ospedale così ritorniamo immediatamente impazienti.
Federico Del Vecchio disegna linee leggere e sembra capovolgere il flusso naturale negli alberi a testa in giù che passano oltre e attraversano tavoli, che generano antenne, in una continua confusione di stati. Ma tutto ha un tono silente, accordato sulla stessa nota bassa e continua: una goccia che scava la roccia.
Eugenio Tibaldi cancella quasi a colpi di bianchetto, e ridisegna quegli spazi lontani che le immagini, i messaggi e gli oggetti invadono quotidianamente sotto i nostri occhi. Eugenio ficca la sua bandiera bianca e conquista la sua periferia. Risultato è uno spazio affascinante, metafisico, in cui si perdono i riferimenti spaziali e si naviga tra bidoni, copertoni e segnali.
Un’arte impegnata. Ma diversa rispetto a quella dei maestri Hans Haacke, Barbara Kruger o Martha Rosler. Lo stesso intento moralizzatore appare profondamente lontano rispetto a questi giovani. E’ come se, non potendo opporsi al sistema e cambiarlo, l’abbiano ingoiato. E sembra che si sia capovolto di nuovo quel piano dell’immagine che nel 1968, con grande intuizione, Steinberg definì non più verticale, ma orizzontale; nasceva in quegli anni un nuovo approccio psichico all’immagine, non più di confronto, ma di partecipazione. E l’arte determinò questo cambiamento, entrando nella vita come un piano che l’attraversa. Oggi torna a stabilirsi di fronte a noi in ragione, probabilmente, di una esperienza visiva ancora cambiata rispetto ad allora: la sua velocità, il suo essere effimero provoca astensione, un naturale desiderio di “stare a guardare” e anche l’arte smette di occupare, scontrarsi e ferire e adotta il linguaggio “politico”.
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valeria cino
mostra vista il 28 maggio 2003
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