Non potevano essere più diversi
Hugo Markl (Pasadena, 1964) e
James Yamada (North Carolina, 1967): caparbio, determinista quasi fino a essere opprimente il primo; sfumato, più possibilista e discorsivo il secondo. Personalità artistiche opposte, ma inaspettatamente convergenti per la vibrazione comunicativa che inducono.
Entrare in
Mamatschi di Markl è ritrovarsi asserragliati senza scampo nel cupo cromatismo di un cubicolo blu notte. Monolitiche, gigantizzate, impenetrabili si ergono
A Spade,
A Heart,
A Diamond e
A Club, inoppugnabili armi di un invincibile poker d’assi. Quattro enormi carte da gioco, sembrerebbero rappresentazione del reale, esca per riflessioni esistenziali e psicologiche su regole sociali e di vita; eppure, l’eccessiva e ipertrofica
presenza dei pannelli respinge ogni interpretazione mimetica o traslata, costringendo a prendere atto della loro inconfutabile e muta essenza, quasi come accade per le sculture minimal.
Kafkianamente incarcerato nell’opera, l’osservatore è costretto a confrontarsi con contenuti che però si negano e gli sfuggono dietro l’apparente semplicità di una facciata autorefernziale. Sorprendente meccanismo di spostamento e deviazione del senso psichico dagli esiti quasi paranoici e ossessivi, in linea del resto col gusto fetish delle precedenti opere dell’artista.
Una boccata d’aria fresca, dopo il claustrofobico blu di Markl, è il caleidoscopio multicolore in
Daydream Nation di Yamada. Ma l’
allure naїf è subito rotta dai sensori di movimento che, quasi occhi vivi, realizzano il paradosso di essere gli unici elementi animati, seppur freddamente tecnologici, di una rappresentazione solo in apparenza “vitale”. Il panico sogno di una dimensione naturale, non mediata dalla tecnologia, fa spogliare l’uomo dei suoi panni “civilizzati” in
I am now a dolphin, rituale metempsicosi da un piano all’altro dell’essere, stigmatizzata dalla frattura formale del pannello. Modularità ripresa in
Black eyed sun, trasposizione astratta del passaggio da uno stadio “plumbeo” a un altro più “luminoso” del vivere.
Storm e
Leif individuano, con la liricità ottenuta grazie alle potenzialità del mezzo fotografico, un’ipotetica riappacificazione dell’uomo col contesto tecnologico, subito rimessa in discussione dalla composizione scultorea di monitor di
Warmer, simbolica e sadica catarsi dalla tecnologia, sobillata dal
brainstorming di immagini di vita olistica e incorrotta.
Nonostante le immagini dalla forte connotazione emotiva, però, anche Yamada, come Markl, induce la sensazione di non riuscire a entrare in contatto con le atmosfere psicologiche sottese, “raffreddate” dalla mediazione tecnologica adottata. Spersonalizzato e anestetizzato dalla vita che si è creato, l’uomo di Markl e Yamada non riesce più neanche a leggere le sue carte, e diventa dipendente del gioco e delle regole che egli stesso si è imposto.