Fra tutti gli
Sguardi lanciati da Capodimonte (prima da
Olivo Barbieri, poi da
Craigie Horsfield), si capisce subito che quello di
Mimmo Jodice (Napoli, 1934) è lo sguardo d’un innamorato, aggiratosi per le strade di Napoli e nelle sale della reggia borbonica non tanto sul filo della storia dell’arte, ma d’una storia privata e sentimentale, così come intima e profonda è la relazione tra i soggetti messi in pendant.
Anche questi
Transiti, infatti, coi quali si chiude la bella trilogia fotografica che Cristiana Colli ha curato per il cinquantenario della pinacoteca, viaggiano sulla falsariga dell’accostamento tipica dell’
artista. Abbinamenti non già tra passato e presente, perché in questi pendant in bianco e nero il tempo è, volutamente, azzerato. E le coppie non nascono da un criterio di somiglianza formale, ma sistemate per affinità interiori. Un rapporto che non ha bisogno di essere spiegato, perché evidente. Alle tenebre del cuore, prima che ai lumi della ragione. Eppure organizzato da una logica ferrea.
E se nei cicli dedicati all’archeologia parlava il silenzio, qui s’incontrano e s’accavallano i rumori di una città disperatamente teatrale, che lambisce le
sacre stanze dell’Arte con la dimensione della coralità. Perciò mancano indicazioni relative ai quadri fotografati (e poi scelti fra centinaia e centinaia di scatti), perché -spiega Jodice- “
abbiamo fatto questo lavoro tutti insieme”.
Oloferne decapitato e la signora “incorniciata” dalla visagista, l’esangue certosino e la dama del milieu. Uomini e donne, vecchi e bambini. Seducenti, strafottenti, disperati, ironici, rassegnati, sconfitti, altezzosi. Il museo non è più un museo, sepolcreto di capolavori dall’alito freddo, ma un grumo brulicante di voci e di
sguardi assorbiti e rimandati
di panza. Viscere dove serpeggia il
male oscuro, cifra dominante nelle pupille umide di un’ineffabile malinconia, un’inquietudine sospesa tra sensualità e morte, nei corpi vinti dalla peste e in quelli sfiniti dalla possessione devota.
Di retorica, certo, ce n’è -basterebbe pensare all’atavico, a non dire
genetico, culto dei defunti- ma la maestria e la delicatezza dell’artista strappano i suoi soggetti “reali” (convenzionalmente, quelli in carne e ossa, i quali però contendono a quelli dipinti l’inganno dell’eternità) ai limiti del localismo, pur affermandone la peculiarità: facce che sembrerebbe impossibile trovare ancora
oggi, oggi che vogliono pensarci tutti uguali. E magari sarà folclore, saranno cliché di facile presa emotiva, ma sotto sotto la grande anima di Jodice pare suggerire che forse è proprio tra le rughe e le croste di questa città superba e stracciata, cristallizzata in un perenne dopoguerra, che s’annida il terribile mistero della sopravvivenza.
Una città miracolosamente scampata a se stessa, sopravvissuta finché poteva. E che al tempo che l’aveva ridotta in cenere ha gettato una manciata di polvere negli occhi.