“
Aut tace / aut loquere meliora / silentio”, ammonisce
Salvator Rosa (Napoli, 1615 – Roma, 1673) dal suo autoritratto, artista eccentrico felicemente in bilico nell’arte di elaborare dipinti, poesie, epigrammi, satire e componimenti musicali nel mezzo di un Seicento naturalistico e bizzarro che ha attraversato la penisola.
Così, in un silenzio interrotto dall’arredo invisibile del sottofondo musicale dell’allestimento, si compie per la prima volta con un taglio monografico, dopo l’esposizione di Londra nel ‘73, la celebrazione dell’artista all’interno di una manciata di sale sotterranee del museo, oggi restaurate e intitolate a Raffaello Causa, storico soprintendente. Disegni, incisioni e paragoni con gli artisti meno noti al grande pubblico continuano nel percorso museale al secondo piano.
La formazione napoletana di Rosa, all’ombra del cognato
Francesco Fracanzano e nella bottega di
Jusepe de Ribera, dove tra l’esercizio del disegno e la visione diretta delle opere tutta una generazione di artisti impara l’abc del naturalismo caravaggesco, si caratterizza fin dai primi lavori di genere: paesaggi, marine, scene di vita quotidiana dove
Pescatori si tuffano da archi rocciosi per raccogliere
Corallo e
Banditi confabulano atteggiati come picari dallo sguardo accigliato sotto larghe falde di laceri cappelli.
Salvator Rosa vuole però emergere dalla definizione di pittore di paesaggi e battaglie, come narrano le cronache dell’epoca, e amplia la propria tematica eseguendo ritratti ideali di
Eraclito e Demostene,
Diogene e Alessandro, filosofi sinceramente ammirati al punto da far loro cedere spesso i propri caratteri fisionomici per dar spazio a audaci
Autoritratti, dove il pittore compare sotto mentite spoglie.
L’occasione per lasciare definitivamente quel “
paradiso abitato dai diavoli” gli viene data dall’amico Nicolò Simonelli che, nel 1639, espone nel Pantheon
Tizio lacerato dall’avvoltoio, attualmente non identificato, ma che farà da lasciapassare per crearsi una committenza a Roma e successivamente a Firenze, dove tra il 1640 e il 1648 troverà una cerchia di amici intellettualmente affini, Giovan Carlo de’ Medici che diviene suo protettore e Lucrezia, la moglie variabilmente interprete di una pensierosa
Poesia e di una taciturna
Musica.
Con il suo spirito da protagonista, Rosa fonda un’Accademia entro le mura domestiche dove recitare i propri versi e intrecciare nelle scene di battaglia un’ammirata natura selvaggia, pratiche alchemiche e misteriose stregonerie. Un modo per condannare il lato oscuro della realtà, per proclamare la vittoria della morale cinica e stoica, continuando però nella seriale proposizione di figure terzine, ossia dalle dimensioni ridotte, che animano i suoi dipinti.
In mostra si concentra l’attenzione sul costante ricordo dei modi della pittura napoletana nella produzione matura del pittore ma occorre inevitabilmente fuoriuscire dalla visione “napolicentrica” per prendere nota della cultura bambocciante di stanza a Roma grazie a
Pieter van Lear, di disegni e incisioni di
Filippo Napoletano,
Jacques Callot e delle stregonerie narrate dagli scrittori dell’epoca comprendendo così una della tante messe nere celebrate da due ecclesiastici in odor di blasfemia con una sfumatura umoristica e l’ampio respiro della vasta cultura artistica di Rosa.
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Premesso che la mostra è interessante ed io adoro Salvator Rosa (specie gli scenari apocalittico-stregoneschi)…
MA (si sa noi napoletani non resistiamo alla tentazione di criticare) ho l’impressione (e mi piacerebbe sapere cosa ne pensano gli internauti) che si sia fatto il compleanno (o le nozze se preferite) “coi fichi secchi”… Per un cinquantenario mi sarei aspettato mostre più altisonanti e di richiamo (ah! le file chilometriche dei turisti per vedere Caravaggio)… Magari dirottare qualche fondo dal MADRe a Capodimonte non sarebbe stata una cattiva idea… cosa ne dite?
PS: ma secondo voi la stazione della metro (“Salvator Rosa Stesccion”) è stata fatta di rosa per coordinare nome e colore?
PS2:un plauso alla TEDESCO