Il segno di
Sergio Fermariello (Napoli, 1961) è iniziato come
un’iscrizione, un grafismo rudimentale, arcaico ma sofisticato, che lo ha
portato a coniare una cifra stilistica tutta sua: un guerriero stilizzato che
sembra disceso direttamente dalle pareti di una grotta preistorica. Un graffito
che si replica illimitatamente come una sommossa, il sovvertimento di un ordine
che s’impone di dominare il caos e lo costringe a diventare forma.
In un certo senso, l’artista parte dal gesto: un gesto
umano, quello della sua mano, che trova sulla superficie una dimensione che può
essere piccola, piccolissima, o grande a dismisura. È come inventare un nuovo
linguaggio visivo a partire da un unico elemento ripetuto serialmente, ricerca
che in Italia era già stata affrontata da
Capogrossi, da
Dorazio, da
Carla Accardi, i quali avevano trovato nella
ripetizione un ritmo generato naturalmente dalla qualità originaria del segno.
Figlio di un’epoca mediatica, Fermariello iscrive il suo
codice tribale in una trama fitta in cui l’occhio si perde nel tessuto visivo,
rintracciando tutto il percorso di ogni singolo logo, quasi simbolo di un
anonimato collettivo che si diffonde come un’epidemia nel territorio urbano. La
sua è un’animazione fredda, che si riscalda nella stesura manuale, nella scelta
dei materiali trattati con il calore delle luci del Mediterraneo.
In queste nove opere, provenienti dal Museo Niterói di Rio
de Janeiro, che si sviluppano come altrettante installazioni in ognuna delle
sale dello storico Palazzo Roccella, l’artista ha sperimentato l’uso di nuovi
materiali di supporto, che gli consentono un rapporto di scambio più funzionale
con l’architettura e l’ambiente.
L’acciaio lucido, temperato o sabbiato fino a renderlo
opaco, il ferro ossidato e riscaldato dalla ruggine, come nelle opere
monumentali di
Richard Serra, formano strati sovrapposti e alternati in cui s’incide
il segno dilatato a dimensioni macroscopiche. Trasformandosi in materia viva,
in un emblema forte ed espressivo.
In una delle sale s’inseguono sulle pareti tanti barracuda
luccicanti, le sagome affusolate, scomposte in lamine d’acciaio distanziate fra
loro. E si ricompongono muovendosi nello spazio, stabilendo così un rapporto
diretto, co-esistenziale col fruitore.
La migrazione è, metaforicamente parlando, l’effetto
generato da questa forza dinamica, il cui percorso sembra non tornare mai al
punto di partenza. In un lungo pannello che percorre la parete di una delle
sale come un fregio, il segno rimpicciolito è come una calligrafia che si snoda
lungo il nastro, è un Dna che ha qualcosa di umano. Ma è anche elemento
iconografico, dove le lance e gli scudi di questi piccoli guerrieri sono lo “0”
e l’“1” del sistema binario.
In altre parole, è un segno che ha una struttura costante
con valenze plurime, contenendo in sé la virtualità d’infiniti contesti.
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