Un dialogo a tre voci. Due provenienti dalle artiste, con i lavori che si dividono tra gli ambulacri e il carcere alto. L’altra dal castello stesso, contenitore “scomodo” e ingombrante, che riesce però a suggerire nuove prospettive e suggestioni. L’intensità delle due mostre -slegate negli ambienti ma non sempre nei contenuti- si svela proprio nell’interpretazione degli spazi.
Sabrina Mezzaqui (Bologna, 1964) trasforma le parole in immagini, la prosa in poesia. Dal racconto
Anna Soror di Marguerite Yourcenar ricava la pianta stellare del castello, la ricostruisce con le frasi del testo. Tramuta semplici fogli quadrettati in enormi pizzi, mappe nautiche in arazzi pregiati. Lenta è la mano che taglia, tesse, incolla, colora. E il tempo così dilatato
scolpisce le opere, frutto di una meticolosità meccanica ma intimamente infantile. “
C’è un tempo per stracciare e uno per cucire”, recitano i versi del Qoelet. La ricerca di valori condivisi si fa strada fra i diversi testi sacri, così come la ricerca delle lettere giuste da ritagliare e riassemblare. Dilatazione temporale, accentuata manualità e senso dell’ordine che aiutano a rivedere il concettualismo poetico di
Alighiero Boetti, ripassato attraverso citazioni letterarie antiche e moderne. Esemplare, per quanto riguarda la lettura degli spazi, l’installazione
Pond Ripple, sequenza visiva e sonora dal carattere ipnotico, con il soffitto in tufo che si trasforma in una cupola decorata da mosaici in dissolvenza.
Il dialogo con il luogo fa da
trait d’union con i lavori di
Melita Rotondo (Napoli, 1954), allocati nel carcere alto. L’artista agisce sia all’esterno, con le lettere del titolo della mostra incastonate ognuna in una finestrella, sia all’interno, cui si accede passando su uno zerbino che suona come un augurio:
Stiamo tutte bene. Al centro della sala s’impone una sorta di palcoscenico occupato placidamente dai suoi
1600 sogni, comuni sacchetti di plastica che si trasformano in cristalli sotto la luce dei riflettori puntati ad hoc. Tutt’intorno nasce la mostra, crocevia di storie che si snodano e s’intrecciano nelle diverse sale: il reliquiario di una storia d’amore; il posto -nella vita come nel lavoro- che non si trova, metaforicamente rappresentato da un circolo di sedie a testa in giù. Ancora, il potere che assume forme diverse, dai grattacieli di monete a quell’unica sedia in piedi. Il potere subdolo che s’incarna nel pupazzetto
for president Rose Bon Bon, inquietante nel suo aspetto familiare, pronto a trasformarsi in una bambola assassina da horror di serie B. Il tono si fa ironico, denuncia sottile di meccanismi perversi mai sovvertiti.
Alla dilatazione promossa da Mezzaqui si contrappone un’immediatezza che perde la dolcezza di bambina per farsi donna. L’invito è a trovare la verità nascosta, quella
altra che si cela dietro le apparenze. Ma anche la magia delle piccole cose, spesso offuscata da uno sguardo disattento. Un invito che prende la forma di “affaccio” sui sogni. Con l’augurio di non perderli mai di vista.