Che bello vedere finalmente una mostra valida, realizzata in una sede istituzionale, con un minimo finanziamento pubblico e con l’aiuto di sponsor privati. Evidentemente, la scelta di un curatore giovane e intraprendente, unita all’esposizione di collezioni già presenti sul territorio a pochi passi dal museo, si è rivelata vincente. Vale, quindi, la ricetta secondo la quale con pochi e giusti ingredienti -qualità delle opere, chiare scelte curatoriali, buon allestimento e ottimi apparati didattici- si può realizzare un progetto che abbia tutte le carte in regola per diventare una mostra itinerante. Ma perché stupirsi? Perché l’ordinario, in città come Napoli, diventa sempre straordinario.
L’eterogeneità della collettiva è tenuta insieme da un rigido, ma quanto mai chiaro, apparato teorico, che detta anche la distribuzione delle opere lungo il percorso espositivo. Ogni sala ha un titolo e, con esso, un tema. Si inizia con la Pop Art e quindi con
Mao (1972) di
Andy Warhol, prima icona da cui trae linfa l’arte cinese post-rivoluzionaria. Quando la Cina si apre al mondo, dopo la morte di Mao Tse-Tung, trova che qualcun altro l’aveva già rappresentata nella sua essenza. L’impatto è così forte che, in pochi anni, la rivisitazione dell’immagine di Mao in chiave pop si fa dilagante, tanto da creare una corrente Mao-pop, che comprende le opere di
Shi Xinning in mostra, in cui compare Mao a Las Vegas o in compagnia di Audrey Hepburn.
Il diffondersi a macchia d’olio, in seguito, del consumismo occidentale è evidente nelle opere dei
Luo Brothers e in
Requesting Buddha (1999) di
Wang Quingsong, il quale coniuga la sua opera anche secondo gli echi più autentici dell’arte tradizionale cinese in opere come
Eterealbeauty (2003).
La vera forza della tradizione appare però nel video
Fen Ma Liuming Walks the Great Wall (1998), tratto da una performance sulla Grande muraglia di
Ma Liuming che, in apertura della mostra, fa da contrappunto al video della monumentale sfilata di Fendi del 2007 sulla stessa Muraglia, presentato in chiusura. La forte velocità di cambiamento della Cina, registrata da questa contrapposizione di video, è evidente anche in altre opere, che ne sottolineano allo stesso tempo tutto il malessere provocato nella popolazione, come
The First Intellectual (2000) di
Yang Fudong e le graffianti opere fotografiche di
Li Wei.
Molto interessante è l’analisi sulla condizione della donna in Cina, puntualmente registrata in due sezioni espositive, con le opere di
Cui Xiwen -le bambine della scolaresca pop di
One day in 2004 No. 2 (2004) sono tutte ferite da abusi-, di
Yang Quian -con le prostitute di
Hotel Bathroom No. 13-, di
Liu Jin -che ironizza sul sogno di emancipazione della donna in
Same You, Same Me.
Al termine della rassegna, tutta da scoprire insieme all’interessante catalogo, è proprio l’affermazione del titolo a rimanere sospesa. La Cina sarà poi così vicina? La mostra non lo afferma espressamente, ma basta andare per bancarelle nelle vie dello shopping o affacciarsi nei sottoscala degli edifici diroccati del centro storico o, soltanto, leggere
Gomorra per capire che, sì, qui la Cina è molto vicina.