Qual’è il destino della specie umana? Non solo dopo le guerre, ma anche dopo lo sfondamento biogenetico, l’intelligenza artificiale, i meccanismi di controllo della vita biologico-psichica? Ognuno di questi interrogativi sembra animare la mostra di Federico Del Vecchio che conduce lo spettatore verso una situazione limite. Un confine estremo dello spazio e del tempo che sembra preso di peso dallo scenario di un film catastrofico, un punto che perfino l’immaginazione è incapace di prefigurare, oltre il quale è impossibile spingersi. In questa scena il mondo rappresentato è bianco come un fantasma, l’ombra di se stesso, un sogno non ancora toccato dai colori. Il bianco è attraversato da una linea verde acido che raccorda tutte le immagini sulla linea d’orizzonte di un unico sfondo senza prospettiva. L’uomo, immerso in uno scafandro d’astronauta, è l’unica presenza riconoscibile in un mondo in cui manca anche l’atmosfera, dove gli oggetti sono indecifrabili o irraggiungibili. La scultura oggetto sospesa al soffitto (già presentata alla Quadriennale e qui riproposta in un nuovo allestimento) rovescia i termini di paragone tra organico e inorganico. L’artista si serve di materiali tradizionali (come il legno) trattandoli con un procedimento che conferisce loro una patina artificiale e plastificata, sforzandosi di recuperare un’unità di forma. Ma il contenuto non è riconducibile a nessuna forma plausibile. Il prototipo è frutto dell’immaginazione. La rappresentazione schematica di un manufatto alieno come poteva immaginarlo Wells ne La guerra dei Mondi.
Così il progetto di partire da una forma linguistica minimale, come la mensola di Haim Steinbach, si arricchisce di citazioni cinematografiche, ripropone una sorta di piccolo “set” in cui ognuno può identificarsi. È la pura sublimazione ludica del già visto, che contiene in sé uno scarto discreto e decisivo, ambiguità più forte di qualunque happy ending e di qualunque morale consolante. Paradossalmente le immagini convivono creando questo senso di spaesamento: un traliccio elettrico incombe su un paesaggio appena popolato da alcune case, la superficie bianca fa apparire e scomparire i contorni delle cose, le riduce a nulla, pura variabile grafica senza ipotesi di una riproduzione più che convenzionale. Le immagini creano un senso di vertigine di fronte ad un mondo ulteriore, come la più fenomenale delle allucinazioni. In cui è principalmente l’uomo ad essere alieno a se stesso.
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Una legge una notizia così è pensa naturalmente che si tratti di un artista oramai lanciato, in realtà mi raccontano che per tirare a campare Federico Del Vecchio faccia il ragazzo di una pizzeria, nobile cosa, mi chiedo allora dove sia il vantaggio nell'esporre da Di Marino? Anche io per tirare a campare faccio cose molto umili e distanti dall'arte solo che una galleria che mi tutela e mi consacra alle prime pagine di riviste patinate non c'è l'ho e non l'ho mai voluta.
Ma a che cosa serve la galleria privata e transnazionale se poi per tirare a campare bisogna fare comunque altro e sottrarre tempo alla propria ricerca artistica...
Mi sovviene di mostri sacri (Svevo, Pessoa e Kafka, i primi che mi vengono in mente) che facevano altri mestieri... Perché "sistemarsi"?