Danilo Eccher e Odile Decq, rispettivamente direttore e architetto progettista, el Museo Macro a Roma, riprovano a fare il miracolo, co-curando una mostra sulla città contemporanea che tenga insieme arte ed architettura. Ottime le intenzioni e l’apparato teorico dell’esposizione, egregiamente esposti nel catalogo della mostra, un po’ meno chiara la realizzazione.
La città che sale, quadro del 1910 di Umberto Boccioni, rappresenta conflittualità e contrasti della città di inizio Novecento. Interessante è la ri-proposizione del tema, offerto a quindici artisti ad un secolo di distanza, per vedere cosa è cambiato. Ma la mostra vuole fare di più: accostare il tema dell’architettura, fortemente attinente, se non addirittura preminente vista la traccia, a quello delle arti visive. E lo fa proponendo una serie di nove gigantografie, una per ogni opera di architettura contemporanea selezionata dalla Decq, lungo il percorso espositivo. Questa modalità operativa rappresenta però tutto lo iato insito fra i due mondi. Essa mette in luce la differenza di percezione che si ha dell’architettura dal punto di vista dell’arte contemporanea: una visione iconografica, la riduzione, cioè, di un edificio alla sua immagine, senza analisi delle implicazioni progettuali e spaziali che sono alla base di quest’arte sorella.
È singolare che la parte più “costruita” di una mostra di siffatte intenzioni sia rappresentata da Fraternal Twins (2005): due modelli dei percorsi ipogei realizzati a Poggibonsi da Tobias Rehberger con Olafur Eliasson, per la decima edizione della rassegna Arte all’Arte, o dalle costruzioni ideali in scala ridotta dei padiglioni in vetro, Portal (2002-04) e Pavilion (2005) di Dan Graham.
Oppure, ancora, dal sacrificato modello a parete e dalle foto di una realizzazione datata 1995, Tetra House N-3 W-26, di Tadashi Kawamata, artista da sempre proficuamente interessato all’interazione fra arte e architettura, che continua a produrre, ancora nel 2007, opere bellissime, purtroppo non in mostra. Altrettanto interessante la ricerca, ma ugualmente datata, l’opera in mostra di Luca Pancrazzi, 18h, 45’ (1997) in cui, con caratteri tipografici dal piccolo corpo, viene ricostruita la volumetria di una città, innestata paradossalmente a spezzare la continuità di una colonna, completano l’installazione quattro video con vedute della città miniaturizzata.
Ineccepibili, al contrario, gli interventi di Elmgreen & Dragset e Massimo Bartolini. I primi, sempre minimali, netti ed intelligentemente spiazzanti, aprono la mostra con l’opera A Change of Mind (2007), in cui due pannelli pubblicitari, con scritte ruotanti asincronamente, rimandano, a partire dagli stessi frammenti linguistici, nuove frasi dagli inattesi significati. Il secondo propone una delle installazioni site specific più sorprendenti e centrate sul senso della mostra, BARS (future as it was once): uno scintillante ponteggio mobile da costruzione si spinge in alto fino a toccare la volta della sala, ma è sollevato pochi centimetri da terra, è ancorato, cioè, al soffitto in modo da annullare ogni funzione statica dell’oggetto. Notevole l’opera di Pedro Cabrita Reis, True garden #5 Benevento (2007), che, perduta la sua originale collocazione nel percorso della mostra, appoggia i suoi pannelli polemicamente alla parete di una sala, come in un deposito.
Sicuramente valida, oltre che suggestiva, l’installazione di Hans Op de Beeck: un video Building (2007), interamente realizzato al computer, e un grande modello Accumulation (design for the Building), del 2007.
Ma perché portare in mostra un’opera appena presentata, in marzo, presso la Galleria Continua di San Gimignano? E perché quasi la metà degli artisti presenti in mostra -7 su 15- provengono dal polo Galleria Continua/Associazione Arte Continua? Senza contare che la metà dei restanti hanno già esposto al Macro? Cosa si vuole fare di questo Museo di Arte Contemporanea del Sannio? Una succursale periferica di altre istituzioni?
giovanna procaccini
mostra visitata il 23 giugno 2007
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E' incredibile quanto la politica, fatta così a basso livello, riesca a rovinare ogni cosa.
Arcos è un'esperienza da dimenticare, una vergogna improduttiva.
"Una succursale periferica di altre istituzioni?" Perchè cosa credevate ne facessero conoscendo la politica di Eccher?Sveglia!
Non ho visto la mostra ma la analisi fatta dalla Procaccini mi sembra attenta e puntuale.Soprattutto per la capacità di fare delle osservazioni "negative" su una mostra di arte contemporanea. Maperché 'sti curatori pensano di avere a che fare con degli imbecilli! Sono loro la rovina di tutto. E' veramente penoso.Così non si va da nessuna parte. Bravi Exibart. Siamo più duri. Almeno non ci prendiamo tutti per il sedere!
Ma quale politica!?!? Avete provato a chiedere ai beneventani se sono mai entrati in quel museo? Un progetto culturale nasce prima di tutto dalla gente e per la gente del territorio, se queste persone NON vogliono accogliere il progetto e farlo crescere, non è colpa dei politici o dei curatori. Al momento, considerando l'interesse che hanno dimostrato i beneventani per le proposte d'arte contemporanea della città, direi che è già tanto se il Museo sopravvive come periferia... nella speranza che possa risvegliare le menti sopite del Sannio.
Il modo di gestire Arcos è praticamente VERGOGNOSOOOOOOOO!!!
E' vero purtroppo i Beneventani non conoscono e non vogliono conoscere l'arte contemporanea. Non solo, vivono in una città storica e molto bella, ma non amano abbastanza la cultura e l'arte della loro città, per questo non si aprono a un nuovo tipo di turismo. Benevento è conosciuta solo per Pietralcina! E'colpa della politica chiusa ma anche dei cittadini. Per quanto concerne la mostra, ritengo che sia comunque interessante.