Quello che c’è, innanzitutto. Quel che si vede. Pesci appesi con le mollette a corde da bucato. Un mastello, un imbuto. Un piccione in bilico su una pila di cassette piene di bottiglie. E naturalmente galline, intraviste tra i buchi delle stie o annidate in padella. È l’evidenza la cifra di Peppe Perone (Napoli, 1972; vive a Rotondi), la semplicità il suo approccio al lavoro. Una scultura deittica, soda e generosa. Disarmante, visto l’ermetismo concettuale su cui si è arenata la plastica contemporanea. Gusto di accarezzare lo spazio con opere non site specific né ready-made, illustrazioni di un’autobiografia georgica ricalcate in vetroresina e dipinte con sabbie differenti per grana e provenienza. Tutto rigorosamente fatto a mano, meglio ancora se tecnicamente complesso.
La personale –la prima a Napoli, dopo quella nel 2001 in tandem col gemello Lucio– ripropone un bagaglio iconico e uno stile consolidati e noti, marchi di un artista che, tutto sommato, si dichiara ancor giovane e chiosa: “Credo che la mia avventura nel mondo dell’arte sia appena iniziata”. Umiltà. Sincerità. Onestà. Indifferenza alle mode. Concetti dei quali Perone si fa scudo contro uno dei rischi in agguato dietro la (ormai conseguita) riconoscibilità: la degenerazione in stereotipo. No, non teme di restare insabbiato su se stesso il giovane, pur bazzicando le spiagge in cerca di quella patina che, come polvere luccicante, si posa sulle cose di tutti i giorni, contrastando e sottolineando la caducità del tempo con l’arma metafisica di una fossilizzazione color Morandi dal balbettio dada. Object oublié piuttosto che trouvé, reliquie di un piccolo orizzonte domestico che non pretende di universalizzarsi, di elevarsi a paradigma della problematicità del presente rimbalzando spericolato dal micro al macro, pur non spregiando parallelismi drammatici o colti.
Similitudini più che metafore, tanto che uno dei suoi cavalli di battaglia, ovvero l’accoppiata pesce + calice, pare solo vaga allusione cristologica più che allegoria ermetica e “paleo”.
Non fa rumore, Perone, e soprattutto non vuol far ridere né divertire, pur esponendosi per gradevolezza e facilità di segno ad un altro pericolo, quello di una lettura univocamente ludica e perciò fuorviante. Tra intuizioni e riflessioni, pago comunque del proprio impegno, cammina da solo sulla uova dell’immediatezza poetica, sorretto da un database subliminale di reminiscenze iconografiche. Attutito, corposo e avvolgente, ritma la stesa ittica, immagina anime filtrate nel risucchio dell’imbuto, stipa le gabbie pensando ai boat-people, guarda incuriosito la gallina che cova nel wok. Osserva la vita, per manipolarla poi con cautela. E con una sorta di caparbio, infantile, esercitato piacere tattile. Perché il mestiere conta, eccome. Primum scolpire, deinde philosophari.
anita pepe
mostra visitata il 19 aprile 2007
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