Postmoderno. Ovvero dell’attitudine auto-osservantesi di un’arte ormai consapevole che principale nel suo linguaggio è il
sistema di relazioni comunicative. E che quindi sgrana riferimenti, in un citazionismo che, più che rivolgersi all’esterno, punta l’obiettivo all’interno, interrogandosi sul peso dei retaggi visivi e sul ruolo dell’artista.
Altre volte ironica, quest’indagine diventa
self-conscious in
Cheyney Thompson (Baton Rouge, 1975; vive a New York) e si trasforma in rigorosa autoanalisi, affilata come un congegno ad alta precisione, implacabilmente critica sulla funzione dell’autore. Partendo da disegni di
Cézanne tratti da
Rubens, Thompson traccia segni astratti derivati dalla rielaborazione digitale del dato rappresentativo, riportando un’immagine pre-realizzata da un braccio meccanico. Evidenti i collegamenti con la New Media Art e con l’arte robotica, recentemente portata all’attenzione partenopea dai
Robots del Pan, così come il macchinoso, e di nuovo tipicamente postmoderno, funzionalismo ipertrofico sotteso all’operazione.
Ma il gioco di citazioni a scatole cinesi è soprattutto esplicitazione dell’inevitabile sistema di interferenze tra artisti.
La riflessione sull’“antropologia dell’arte” è ancor più chiara nei monocromi serigrafici. I pannelli richiamano lontane suggestioni puntiniste e ricorrenti stilemi Pop per approdare alla costruzione di volumi illusori tipici dell’Optical, trasversalmente indagando il senso della pittura. È proprio l’intervento pittorico su uno di essi, riproducente un frame del video di Heltoft, a svelare come l’individualità nell’attuale ingranaggio dell’arte sia da considerare non più un perno centrale, ma una delle rotelle.
Eguale ricerca sugli scambi tra personalità artistiche e medesima destrutturazione della forma, stavolta non segnica ma spaziale, è in
Ulrik Heltoft (Copenhagen, 1973).
Backwards to Africa traspone una non finita sceneggiatura di
Antonioni in un video la cui flebile trama più che narrazione è pretesto per rimandi visivi. Il focus è sullo sdoppiamento e straniamento di spazi e sulla deviazione di senso di un’idea creativa nel suo passare da un autore e da un medium all’altro.
Simile processo nelle foto che applicano le istruzioni date da Russell nel ‘27 all’illustratore di una sua opera: lo
shift di inevitabile discrepanza insito in ogni re-interpretazione induce quella perdita di controllo capace, però, di far guardare con occhi nuovi il consueto. Proprio come quando si entra per la prima volta in un ambiente sconosciuto.
Così, in
Recurring Sightings è la stessa galleria a ispirare un disorientamento spaziale -accentuato dalla distribuzione destrutturata, quasi alla
Gehry, delle minimali sculture in polistirolo attorno allo schermo- nel protagonista, tale da farlo inciampare: momentanea crisi dell’arte sul gap della dislocazione e del cambiamento, scalino però indispensabile per un’evoluzione di livello.