Hwang Young-Sung, nelle sue griglie in acciaio, silicone o tela, raffigura, attraverso una miriade di icone, tanti piccoli mondi, singolari ma sempre simili tra loro. Ogni simbolo guadagna il suo posto all’interno di una composizione diventandone parte integrante al punto tale che fuori di essa perderebbe di significato. Mentre la singola immagine cambia, l’intera forma compositiva rimane la stessa; è come se ogni opera venisse dotata di serie di un minimo comune divisore. Dunque, le sfere, i quadrati e le policromie non raccontano nulla da sole, ma si rivolgono all’osservatore parlando in coro.
Il maestro coreano invita il visitatore a confrontarsi con i quadri in modo semplice, alleggerendolo dall’obbligo di cogliere eventuali messaggi celati. Sarà sufficiente leggere l’opera da lontano, senza avvicinarsi troppo. Da vicino infatti, si può cogliere la pennellata grumosa dell’acrilico e l’imperfezione del silicone, ma certamente la visione prossima non arricchisce quella distanziata, rischiando anzi di offuscarne il significato più forte, costituito dall’unione. Il far parte di una composizione, di una matrice quadrettata, di una cernita cromatica, è come far parte di una famiglia. Non è casuale che il titolo più ricorrente dato ai quadri sia proprio Family.
Attraverso la sua prima mostra personale italiana, Hwang Young-Sung consente allo spettatore di usufruire dell’arte come un momento di piacere, tralasciando qualsiasi monito verso la società odierna e qualunque metafora sull’ego. Rimane la sola voglia di godere con gli occhi, di assistere ad una nuova effervescenza policroma, di vedere miriadi di composizioni dal ritmo e dai segni sempre diversi.
luigi rondinella
mostra visitata il 30 maggio 2006
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questa mostra è davvero penosa... ma perché Lorand Hegyi non pensa, piuttosto, ad organizzare qualche mostra decente al Pan?