Il bianco e nero è di rigore. Netta, equilibrata, elegante è infatti la composizione delle foto che Pietro Donzelli (Montecarlo, 1915 – Milano, 1998) scattò su e giù per l’Italia dal dopoguerra agli anni Sessanta. Terra senz’ombra, Paesaggi senesi, Sulle rive del Po, Napoli, Calabria sono i titoli di alcune di queste serie, che raccontano quasi vent’anni di storia nazionale. Anni di trasformazioni non sempre facili, in cui sulle macerie ancora fumanti del conflitto si consumò la fase decisiva di quel passaggio -ipotizzato più che progettato- del devastato giardino d’Europa da paese agricolo a paese industriale e consumista. Passaggio che lasciò definitivamente insoluta la questione meridionale, con buona pace di Iri e Casse per il Mezzogiorno.
Donzelli aprì l’occhio e il diaframma non sull’Italia, ma su molteplici Italie, dall’umida e malinconica pianura del padre Eridano alle dolci campagne e ai colli sereni della Val d’Orcia, fino a spingersi sempre più a Sud, dove la sua propensione neorealista trovò terreno fertile e poté compiersi appieno in impaginazioni che, per maturità e suggestione pittorica, soverchiano il pur evidente valore documentario.
Le foto scattate ai pescatori di Procida toccano infatti il naturalismo seicentesco, e ammiccano alla ripresa ottocentesca, proiettandosi nei più densi fotogrammi del cinema anni Cinquanta, quello che non volle lavare in famiglia i panni sporchi, ma stese al sole abbacinante il suo frusto bucato: lenzuola nettate con cenere e rabbia, canottiere sdrucite, maglie strappate. Povertà che rattoppa e si strema sull’acqua salata, per la quale ogni impiantito, ogni andito, ogni vano, è buono per posare il corpo cotto dal sole e dalla fatica. Impiantiti di legno pregni di salsedine e gradini di pietra: covili, più che letti, ove i Pescatori di Procida s’abbandonano a un sonno randagio. En plein air, fors’anche vagamente di genere, dove le pietre paiono sgretolarsi sotto la luce accecante, insostenibile, ma anche interni, allestiti con fiamminga razionalità, in cui nulla pare e deve essere fuori posto, per non turbare la controra del pigro mal d’Africa, in cui nient’altro è possibile se non sdraiarsi sulle fresche lenzuola e soffiare nel clarinetto.
Ma queste sono altre storie. Di lì a poco sarebbe cominciato il lavoro. Sarebbero venute la fabbrica, le valigie, i materassi impilati. Ed il progresso non avrebbe camminato più sulle gambe degli uomini: l’illusione del benessere avrebbe viaggiato più velocemente su quattro ruote. Ed eccole lì: decine di utilitarie, lucide, simmetriche, in fila ordinata. Dall’alto, spalmata su un muro della Napoli dei Sessanta, BB, boccoluta e voluttuosa, invita: prendetene e usatene tutti.
anita pepe
mostra visitata il 1 ottobre 2004
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