Tra Napoli, Milano e Parigi, il lungo e intenso itinerario d’arte di Del Pezzo non segue una sequenza progressiva: dal “nucleare” all’“oggettuale”, dalla Metafisica alla pittura come riscrittura di figure, simboli, emblemi dell’arte e della sua storia; la pittura intesa come segni e sogni.
La sua opera è tutta intrisa dei pensieri che l’arte italiana ha tessuto a partire dagli anni ’50 e ’60. E’ proprio dal Gruppo ’58 che l’autore muove la sua pratica pittorica nel ripensare il quadro come spazio di libertà in cui noi reinventiamo continuamente la pittura alla continua ricerca delle nostre immagini prime”; “la tela diviene carne viva, versione diretta, scottante e inalterata della più intima dinamica dell’artista, delle sue emozioni più segrete alla maniera dei “nucleari del Sud”.
Prendendo le distanze dalle “cose deserte”, del Pezzo, nel 1958 con Biasi, Luca, Di Bello, Fergola e Persico, s’interroga, scartando ogni compromissione con l’Astrattismo, sulle immagini prime, nel tentativo, ma senza negare la verità dell’inconscio, di trovare la chiave di un’architettura priva di illusioni e di esitazioni. Del Pezzo assorbe e reinterpreta questo rovello: lo spazio è ordinato ed in esso materie e segni, simboli e cifrature vanno al loro posto. Pur nella molteplicità di tanti disparati elementi, costituiscono un tutt’uno mai lasciato al caso. Una materia pittorica dalla quale fanno capolino frammenti di oggetti ed immagini perturbanti. Sono proprio queste immagini dell’universo dechirichiano che, incrociandosi con la manualità e la memoria, sfociano in un sorprendente gioco dell’immaginazione, dove la memoria abbandona i fantasmi privati per attingere a piene mani nello “stile italiano”.
Del Pezzo va oltre la pittura, ma senza che per questo essa degeneri. Per lui andare oltre la pittura significa allacciare legami tra essa e la scultura come l’architettura.
Un’esigenza avvertita anche nel lavoro più recente di Del Pezzo quando la pittura è praticata come reinterpretazione, come “favola di linee e colori”, gioco di segni e di sogni in una tensione che lo accompagna e che, non a caso, gli fa dire, parlando del suo lavoro, quanto esso non possa “dirsi a pieno titolo né pittura, né scultura”. La pittura diviene, dunque, padrona dello spazio, che è fatto di sperimentazione incessante, come incessante è la ricerca “di nuove forme, nuove combinazioni”.
L’oggetto diventa talismano, amuleto, ex voto intriso del fascino mistico del folklore partenopeo, ma con una sua dignità e potenza evocatrice, come talune icone dechirichiane. Cilindri, arcobaleni, sagome geometriche alle quali il soggiorno parigino (‘64/’79), l’esperienza del Gruppo ’58, la vicinanza ai “nucleari milanesi” si fondono con immagini prese a prestito dal Surrealismo, dal Dada, dal Nouveau Réalisme.
La retrospettiva di Castel dell’Ovo mette in luce il percorso artistico di Del Pezzo facendone emergere la raggiunta compostezza e l’equilibrio, permettendoci di godere della sua personalissima vicenda artistica che non conosce esitazioni.
Le sue tavole, lineari e cristalline, come alcune sue vere e proprie sculture, fotografano la nostra epoca, senza trascurarne l’aspetto ironico. Ecco allora che l’autore elabora un mondo figurativo che va al di là delle regole. E’ un mondo innaturale nel quale i volumi divengono sconnessi, la cornice dell’opera si infrange invadendo lo spazio circostante con dignità e misura: il cilindro è affiancato al cono, come la sfera alla piramide e le forme aguzze a quelle arrotondate, in una combinazione incessante che frantuma la linearità architettonica per creare ad un’animata danza senza tempo e senza funzionalità in un fantastico gioco dell’immaginazione che vede gli oggetti allineati su di un piano o incasellati come nelle bacheche di un museo. E se è vero che Del Pezzo si serve del repertorio formale di De Chirico, è altrettanto vero che se ne serve appropriandosene e reinventandolo.
Scomparsa la prospettiva, la lettura delle opere di Del Pezzo è ordinata ma frontale e i colori e le tinte sono lì ad imporci un unico punto di osservazione. “Girando intorno alla scultura cambierà palcoscenico e scena – scriveva Cesare Vivaldi nel ’98 -, ma di volta in volta sono sempre e soltanto se stessi”.
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