Un gruppo di sculture che emanano un fascino misterioso. Non si presentano come elementi significanti, ma al contrario come ambigue materie, che improvvisamente danno il via a furtivi movimenti.
Rebecca Horn (Michelstadt, 1944) come sempre si distingue per l’uso di diversi linguaggi, e realizza un’installazione composta da sculture meccaniche e disegni, in cui si sente forte la costante riflessione sull’essere umano e il ruolo di quest’ultimo all’interno dell’universo naturale. Ancora una volta si manifesta la volontà di sviluppare i rapporti tra la dimensione “umana”, tangibile e quella meccanica, “aliena”, che si è insinuata nel contesto quotidiano entrandone a far parte come fosse una componente consueta.
Ne è un esempio Fiamme di Piume (2003). Un vetro lavorato con sciabolate di vernice nera che si configurano come fiamme, ed entrano in rapporto diretto con una piuma. Un box vivificato da un segnale luminoso che guida un moto perpetuo, alternato a sussulti più violenti.
Al centro di una sala si impone, L’Amant, una farfalla di colore blu che all’improvviso sbatte le sue ali, ma senza spiccare il volo. Rimane immobile, nonostante il movimento e si fa ammirare per i suoi colori intensamente naturali, che si scontrano con l’evidente meccanicità di una movenza reale e al contempo artefatta, perché l’Amant rimane imprigionata in un corpo meccanico, un corpo stravolto che si oppone alla sua essenza originaria.
La consueta riflessione sulla natura dell’essere umano dirompe fino a coinvolgere altri mondi diversi dal nostro, così uno strano, sebbene sensuale, movimento vede protagonisti due specchi, che interpretano i ruoli del Sole e della Luna, coinvolti in una conversazione alimentata dall’energia del moto di traslazione che vede la luna corteggiare il sole, senza avere un contatto diretto, ma unicamente riflesso dalle superfici speculari.
La memoria si ferma, poi, sulla presenza di un uovo che giace orizzontalmente su una scatola di vetro, dentro cui aleggia una piuma. Un filo di ferro collega i due elementi, ma mentre il primo rimane esterno, quindi tangibile, il secondo è lontano, separato dal vetro, la cui trasparenza non aiuta il contatto: due elementi, un tempo imprescindibilmente uniti, saranno per sempre divisi.
La mostra si completa di disegni, alcuni dei quali costituiti di pagine iscritte, consumate da una fiamma ed esposte al contrario, in cui il senso di degrado voluto dalla combustione è animato da un ago di pino che, seppure in parte nascosto, crea un capovolgimento di senso e un accostamento alla vitalità.
L’essenzialità della mostra riesce a rappresentare con grande poesia la complessa dicotomia fra la natura universale e l’unicità delle invenzioni umane. Le opere, così cariche di energia rivelano l’arduo tentativo di insinuarsi nei punti più profondi dello spirito, e scardinarne i legami con il mondo circostante. Un discorso, quello di Rebecca Horn, diverso rispetto a quello che aveva motivato il lavoro di Piazza del Plebiscito, ma ugualmente intenso e lirico che va a rinnovare il suo legame con la città e la cultura partenopea.
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