Dopo la versione
made in Naples della newyorkese
Dangerous Beauty, inaugurata la scorsa estate al Pan, in Campania si torna a parlare di
vanitas. Mentre la kermesse partenopea si focalizzava sui danni di un estenuante anelito di perfezione, il discorso ad Arcos si fa più ampio e al contempo introspettivo. Cos’è la bellezza? È possibile oggi costruirne un’immagine univoca? Le soluzioni restano inevitabilmente parziali e sfuggenti, poiché definire il “bello” è una chimera. E chi meglio del
poète maudit ne ha colto l’indole volubile e contraddittoria? È dunque Charles Baudelaire a dare l’input. Versi stralciati da
Les fleurs du mal sono riprodotti sulle pareti. Da qui si diramano le riflessioni.
Un florilegio di nomi noti dà corpo a un percorso affascinante per varietà e validità di lavori. Forzato però dal tentativo di imbucare opere fuori tema e aggravato da pecche allestitive -in particolare, la disorientante dislocazione delle didascalie- che ne rendono ostica la lettura.
Gioia cromatica gli autoritratti fotografici di
Yasumasa Morimura, ambigue mascherate dall’effetto provocatoriamente transgender.
En pendant con l’iridata palette che satura di colore la tela di
Marc Quinn, composé di fragole e fiori, tanto bella quanto transitoria. Golose cromie che si ritrovano sulla fruttata tavola imbandita da
Vanessa Beecroft per la performance al Castello di Rivoli, testimoniata da un lunghissimo scatto. Per le inappetenti donne sedute al desco, quei cibi non sono altro che oggetti di design. Ossessionate dalla forma, destinata comunque a degradarsi, rammentano
Gilbert & George, distesi a mo’ di salma sullo sfondo di un cimitero, in un loro tipico mosaico fotografico.
Crudamente realista anche la scena del light box di
Mat Collishaw. Cani che difendono a morsi la vita di due neonati abbandonati, inermi Mowgli migrati in città. Mentre una suggestiva installazione narra l’amore di Leda e del cigno/Giove, i cui corpi marmorei si raddoppiano in una simulata superficie d’acqua e si triplicano nell’ombra prodotta a parete dalla luce di una Luna proiettata. Giochi di riflessi moltiplicati all’infinito dal pavimento a specchi frantumati di
Alfredo Pirri, indagine sulla corruttibilità corporea. Da calpestare rigorosamente con scarpe chiuse.
Tenta di sottrarsi all’incedere del tempo il solitario protagonista del 16 mm di
Guido van der Werve, inseguito da una nave rompighiaccio che, avanzando, lacera l’algida e nivea lastra del mare artico. Penalizzato invece
Francesco Vezzoli, il cui video -ispirato a intrighi familiari da telenovela- è faticosamente fruibile per la mancanza dei sottotitoli e per il molesto rumore provocato dal getto d’aria che tiene gonfi gli adiacenti
sexy toys del duo
Goldiechiari. Simili a enormi mine in odor di deflagrazione, risultano maneggiabili unicamente dai giganti di
Brobdingnag. Diverte con l’erotismo
oversize anche
Sylvie Fleury, installando una terna di
Mushrooms glitterati dalla forma fallica.
Scarsamente attinenti i reticoli planetari di
James Brown, i quadri-puzzle di
Marcello Jori e il dittico geometrico di
Ettore Spalletti, che chiude l’esposizione. È vero che Benevento è terra di streghe, ma se nel calderone non ci finiscono gli ingredienti giusti, come può funzionare la pozione?