Rimanere in equilibrio tra primo e secondo piano, gettando nella Storia uno sguardo strabico. Non è facile, ma Mat Collishaw (Nottingham, UK, 1966) ci riesce, con eleganza, gusto, misura. Delicate e innocenti sono infatti le fotografie che, nello spazio A della galleria, immortalano bambini assorti e graziosi come idoli vedici, senza che l’odore dell’India sia viziato dai miasmi di un terzomondismo più da etologi che da antropologi. Luci calde, dorate e bronzee, irrorano sguardi limpidi e dignitosi, curando di non sbattere troppo sui caravaggeschi vestitucci da poco, anche perché l’indigenza di oggi potrebbe essere figlia dell’opulenza coloniale di ieri, quando i ricchi amavano appendere, quasi a proseguire le tappezzerie floreali, paesaggi vaporosi e pieni di luce, qui relegati sugli sfondi. Una Natura decorativa formato salotto Chippendale, che sedimenta nell’elaborato intaglio dello “specchio magico”, dove lo svanire della colomba illusoriamente materializzata dal flat screen lascia lo spettatore alle prese col gioco ingannevole della visione di se stesso. La patina antiquaria, condita dall’amore per un luminismo seicentesco e olandese, torna nella videoscultura ispirata a Bolle di sapone, nella quale il più fiammingo dei dipinti di Jean Siméon Chardin finisce, un po’ ironicamente, col diventare un dagherrotipo animato con tanto di sommesso cicalino carillonesco. L’allestimento calibra armoniosamente le diverse proposte di una ricerca che, da tempo, esorta ad una percezione anticonvenzionale, introducendo nella memoria codificata dell’immagine l’elemento perturbatore, senza tralasciare i valori estetici.
Rifiuto degli schemi preordinati e raffinata erudizione s’intrecciano ancor più strettamente in Tim Rollins (Maine, 1955), impreziositi e inaspriti dalla matrice etico-civile e dalle coraggiose motivazioni politiche che hanno originato i laboratori dei k.o.s. (kids of survival), kunstwerke per ragazzi provenienti dalle realtà disagiate della “più grande democrazia del mondo”, dove però il diritto all’istruzione e alla bellezza non è propriamente uguale per tutti.
In queste falle del Sistema si insinua, metodica, paziente e soprattutto eccellente, la fatica di questo “maestro di strada” (e di vita), mentore di una didattica che è non solo rivendicazione di riscatto ed emancipazione, ma discorso culturale tout-court, e dei più alti. Imbevuto di un sapere europeizzante, con lenta scrupolosità Rollins accompagna il gruppo nell’analisi di materiali impegnativi da trasformare in opere d’arte, siano essi testi letterari o musicali. Proprio le sette note ispirano i quadri nello spazio B, dove un’elegante scelta storica propone, accanto alle ultime realizzazioni, un ciclo “di repertorio” ispirato al Winterreise (Viaggio d’inverno) di Schubert, in cui le note del lied romantico progressivamente si rarefanno nella soffice calma del bianco. Brillanti e ispirati alle bandiere internazionali, invece, i colori che comunicano lo studio sulla Missa in tempore belli di Franz Joseph Haydn, con geometrie memori del costruttivismo russo – tanto per restare in tema di rivoluzione – che s’affrontano sui fogli della partitura settecentesca. Esiti imprevedibili, che sconfessano tanto la presunta inclinazione figurativa adolescenziale, tanto le sentenze inappellabili di un classismo fautore dell’immobilismo sociale e, peggio ancora, intellettuale.
Di contro, Tim Rollins e i suoi kids dimostrano che, se proprio l’arte non salva il mondo, almeno rende liberi. Di usare la propria testa.
anita pepe
mostra visitata il 1 marzo 2006
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