Pittura, pittura, pittura. Serpeggia un’esaltazione pagana nel consueto allestimento compatto e labirintico del Salone della Meridiana. Mostra da godere, quella di
Lawrence Alma-Tadema (Leeuwarden, 1836 – Wiesbaden, 1912), con la consapevolezza di trovarsi dinanzi a uno di quei cult di nicchia. Che miglior collocazione non avrebbe potuto trovare, ospite tra i reperti di quelle città che ritrasse in una languida e fedele varietà di toni, dimensioni e situazioni. Con un sentimento però distante rispetto allo smarrito feticismo dei neoclassici, i quali si fecero un punto d’onore del soggiacere alla distanza monumentale dei secoli che li guardavano dall’alto, sovrastandoli e schiacciandoli.
Qui, piuttosto, la prospettiva è orizzontale e cinematografica, e non a caso la settima arte saccheggiò i dipinti del calligrafico
sir. Dipinti che, in vari formati, regalano illustrazioni sentimentali e vibranti, anche quando la luce si fa fredda, tagliata, metallica.
È in questa lussuosa serie di fermo-immagine che si consuma quel passaggio dal rovinismo al revival che segna la nuova ricezione dell’antico (soprattutto quello dissepolto nell’area vesuviana). Il mondo romano si trasforma in un set accuratamente elaborato, non solo per Alma-Tadema, ma anche per i “compagni” italiani qui accostatigli –
Gigante,
Palizzi,
Maccari,
Morelli,
D’Orsi,
Bargellini– aedi di un estetismo manierato ma tecnicamente ineccepibile.
Un percorso che, quanto più propone ambientazioni cristallizzate, tanto più avvolge il visitatore in una ragnatela suadente, liminare al dolce tedio del melodramma popolare o ad alcune ingenuità delle pellicole di cartapesta. Un meccanismo difficile da gestire criticamente senza sguazzare nel profluvio retorico, lodando l’eccezionale luminosità, la sodezza del disegno, l’equilibrio della composizione, la felicità del colore, la sapienza delle velature, l’accuratezza dei dettagli spesi da maestri liberi da troppi crucci concettuali e scientifici (questi, semmai, vengono brillantemente risolti dagli autori del catalogo multidisciplinare).
Antiquari, più che archeologi, lucidano, cesellano e battono il pezzo in vista della resa finale, per presentarlo sfavillante dinanzi agli occhi del pubblico. Che apprezza e compra, segnando la grande fortuna del
genere.
Facile indulgere alla seduzione lirico-narrativa, a gara con le suggestive evocazioni
d’àpres, seguendo il filo di questo
ludus teatrale dove il pathos scorre a fiotti, ma acconciato in pose alla Eleonora Duse, abbellito da trucchi e belletti di squisita fattura, carico di sensualità esotica, soprattutto nella sezione dedicata alle donne. Scenografie, più che scene, di una vita quotidiana immaginata e idealizzata, dalla religione ai gladiatori, fino alla grama vita di sfaccendati e
clientes che si dispongono al rito della
salutatio mattutina.
E, se è indubbio che l’impostazione sia esplicitamente didattica, mai come in quest’ultimo caso
doctum doces.
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Invitata da un'amica mi sono orientata piuttosto agevolmente nel labirinto espositivo. Tra le scenografie hollywoodiane ho apprezzato un dettaglio degno del miglior Cavalli dei giorni nostri: il maculato dei drappi felini.Buon film.