Hanno un impianto performativo, una base che potrebbe definirsi drammaturgica, le opere di Andres Serrano (New York, 1950), in mostra presso la Galleria Alfonso Artiaco. I diciotto lavori della serie “Tortura”, che segnano il ritorno dell’artista newyorkese negli spazi napoletani a vent’anni dalla sua ultima mostra (nel 1995), descrivono una condizione che è tanto più forte quanto è meno dicibile, quella del dolore verticale, di un male che viene dall’alto, da un’altezza che appare inarrivabile, quando mai si provi a contrastarlo. Serrano – famoso per opere fotografiche che indagano l’umanità nella sua forma più nota e già meno consapevole, quella di animale composito che si ciba di carne viva e che, come la carne, poi muore – espone, in questa occasione, una serie di lavori che arrivano da un lungo processo di metabolismo e analisi.
Si tratta di opere che ricreano una condizione, la riproducono così come Serrano ha immaginato che fosse e nel dettaglio, la crudeltà di una figura che soffre, viene così riproposta. Qui si evince l’incipit drammaturgico di un processo creativo che si sofferma sulla circostanza, reale e tangibile, della tortura.
Noto per una certa impudenza artistica e per la primordiale tendenza a giocare con i propri fluidi corporei, Serrano trasferisce questa capacità, tutta umana, nei propri lavori, che hanno accolto, quindi, sperma, sangue, urina e latte materno. Suo è il famoso Piss Christ, un silenzioso Gesù Cristo immerso nell’urina dell’artista, involucro duttile e accogliente, simile a una placenta. La sua pratica concepisce le cose umane attraverso un occhio che non può definirsi tollerante o liberale, piuttosto semplicemente aperto. Quello che l’artista ricrea, con una manualità registica di grade impatto, è ciò che precisamente accade e dunque, quando si parla di tortura o di dolore inflitto, questa pratica sarà capace di ridurre al minimo la retorica e di creare immagini parlanti, forse anche equivocabili, certamente narrative.
Chiamato a realizzare un’immagine esaustiva per la copertina del New York Times, che nel lontano 2005 uscì con un pezzo dal titolo “Di cosa non parliamo quando parliamo di tortura”, Serrano torna sull’argomento nel 2015, con più audacia e durezza. Frutto di un incontro con il gruppo a/political – organizzazione che mira a rendere gli artisti totalmente liberi, per tutte le fasi creative e curatoriali – “Torture” riproduce un fatto, una situazione che è accaduta e accade ancora. Punto di partenza è la simulazione, dunque la messa in scena di un atto di tortura che, in una logica tutta performativa, viene svolto e documentato.
Nella Fonderia, ex azienda francese oggi residenza per artisti guidata dall’artista Andrei Molodkin, o in altri luoghi di dolore, musei delle torture ed ex campi di concentramento, Serrano esegue tutti i gesti che portano alla performance, prepara luoghi, oggetti e figure, come già fatto con i fluidi corporei. Per Uomini incappucciati e Fatima, utilizza come modello la vera vittima della tortura, sconfinando in un realismo che mira alla finzione. Ma, come in un’operazione ossessiva e precisamente teatrale, che potendo fingere vuol passare attraverso la verità, l’artista rinuncia alla performance. Non vediamo la disposizione dei liquidi, né il ripiegarsi degli uomini davanti alla violenza. Ne vediamo solo la fine, il punto di arrivo, l’immagine degradata di un uomo incappucciato, piegato su se stesso, inerme.
Elvira Buonocore
mostra visitata il 15 febbraio
Dal 10 febbraio 2017 al 31 marzo 2017
Andres Serrano, Torture
Galleria Alfonso Artiaco
Piazzetta Nilo, 7 – 80134, Napoli
Orari: dal lunedì al venerdì, dalle 10.00 alle 20.00
Info: info@alfonsoartiaco.com