Spira vento di impalpabilità da Artiaco: dall’inconsistente scultoreità di nebbia e luce della Janssens all’inafferrabile cortocircuito concettuale di Barry e all’invisibile potenzialità di forme della McBride, le recenti scelte della galleria, con la sfida di rendere avvertibile ai sensi l’intangibile, riverberano nel golfo partenopeo l’imperativo lagunare di “pensare con i sensi, sentire con la mente”.
Ed ora anche Sergio Prego (San Sebastian, 1969; vive tra la Spagna e New York) porta alla ribalta l’entità più immateriale: il tempo. Tempo freddamente diacronico e sfuggente, vuoto di senso e contenuti, che paradossalmente proprio grazie alla “disumana” tecnologia l’artista riesce a rendere caldamente sincronico e “umano”, indagandolo con particolari dispositivi registranti da più punti di vista un unico momento. Così il flusso alienante delcronos, vissuto “istante per istante” nell’intensità del presente, si riempie di significato.
10 to 0, scatti fotografici effettuati da una vettura in moto, accolgono il visitatore all’ingresso come premessa metodologica: l’inconscio tecnologico che già Franco Vaccari aveva svelato nella fotografia cristallizza in singoli fotogrammi, cui il decentratamento nelle cornici conferisce un’ulteriore “provvisoria istantaneità”, ciò che nella velocità del tragitto è inosservato, rivelando inaspettate estetiche nei geometrismi della segnaletica e delle luci stradali, ma saturando impietosamente lo sguardo della bigia cementificazione e del malaticcio giallognolo delle metropoli contemporanee.
Il malsano assorbito a pieni occhi e polmoni è rigettato come torbido liquame in Home, deformante infangamento quasi catartico e rituale del volto dell’artista.
Infatti mistica è l’oscurità delle sale successive nelle quali, così purificati dalle scorie della metropolitana tossicità ambientale ed esistenziale, si è introdotti. Come spade di luce brandite nel buio i neon del video Sunoise, “agiti” da un meccanismo che li vivifica con movimento quasi umano, deflagrano ogni certezza sul confine tra organico e inorganico. Ma è ancora l’esasperata tecnologica lentezza degli istanti di moto ad approfondire il senso filosofico dell’azione. La stessa parcellizzazione degli attimi grazie a una tecnologia umanistica rende metafisico simbolo il procedere del protagonista tra la folla indifferente in Flicker, video risultante da still in sequenza.
Innalzato da terra, a rimarcare l’inconsistenza di peso che l’altrui noncuranza gli attribuisce, egli si perde come segno visivamente ed esistenzialmente tremolante, con wasulkiana corrispondenza nel sonoro.
Finché non si specchia, in un attimo eterno, nell’occhio gigantizzato di un passante che si ferma a fissarlo, ed è proprio quell’istante a restituirgli dignità di vita: lo scorrere del flusso del tempo tra le dita ha senso solo se ci si lascia annegare in ogni sua singola goccia.
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diana gianquitto
mostra visitata il 6 giugno 2007
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uno degli artisti spagnoli piú interessanti insieme a mateo maté e joan fontcuberta.
bella recensione, bella