Ci sono mostre che superano se stesse. Mostre che stimolano riflessioni che ne travalicano i contenuti, l’occasione, il progetto. Mostre che ricadono a pioggia in una tempesta di deduzioni. Come Making a scene, quarta nata in casa di Maurizio Morra Greco, tra i pochi player partenopei splendibili in alto loco: membro del comitato consultivo di Artissima, collezionista d’assalto, prestatore da esportazione.
Eppure, talvolta le proposte della sua Fondazione rischiano d’esser notate più per la location e il dibattito a bordo campo che per la
mostra in sé. Certo, con un palazzo così -la secentesca dimora dei Caracciolo d’Avellino, al Decumano Superiore- e profondendoci del suo Morra Greco, può dire quello che vuole. Mentre farfuglia Jörg Heiser, chiamato a curare una collettiva che astutamente traduce in
Fare una scenata il titolo inglese e, pur rincarando la dose con la Sophia nazionale presa a icona dell’advertising, elude lo
specific di un
site non intimamente sentito, se non attraverso suggestioni di seconda mano, sul quale innestare rielaborazioni di opere non proprio inedite.
Il merito di non aver insistito sul cliché della Napoli sbracata e triviale abusato da certo cinema non rafforza un percorso sfilacciato e passivo: i tre collage di
Haris Epaminonda (che, poi, nella dark room tripartisce un mélange di b-movies greci); il tedioso remake
à la Bergman in salsa turca spiato dalla coppia
Özlem Günyol e
Mustafa Kunt; l’installazione sonora di
Henrik Håkansson che, col flebile singulto del suo uccello messicano, spreca la magnifica occasione del piano cantinato, spazio bello e possibile solo per combattenti di razza (vedi
Gregor Schneider ed
Eric Wesley); la
Deposizione di
Marko Lulic, crasi tra
Bill Viola e
Marina Abramovic iconograficamente familiare; la Loren di
Pierre Bismuth, che continua la serie
Following the right hand of seguendo le evoluzioni mimiche della “
Ciociara”.
Un pensiero debole che, non scoppiando platealmente nell’esternazione, porta a rovistare nella santabarbara degli interrogativi. Primo: Napoli è
davvero città internazionale?
Non avevano dubbi i tre “interpreti” messi da Lulic la sera dell’inaugurazione a concionare –
in english, of course– sul “sistema dell’arte”, dinanzi alla solita cricca di
addict locali: Napoli
è città internazionale. Capitale cosmopolita e provincia alloglotta, dove l’arte contemporanea è ancora -nonostante i (disertati) musei, nonostante la propaganda propagandata, nonostante i nobili intenti- fenomeno settario, prevalentemente a uso e (scarso) consumo di quell’inerte e “giacobina” borghesia regolarmente fustigata da scrittori ed editorialisti.
Una classe che, in nome dell’
internazionalità, insieme agli interinali del jet set inspira ed espira profumo di cultura ai vernissage e che, sempre in nome dell’
internazionalità, tollera quattordici anni di
emergenza rifiuti e secoli di Gomorra senza batter ciglio né muovere un dito. Una Casta Eletta che magari gironzola affascinata per il fatiscente palazzo Caracciolo d’Avellino, ma forse non si domanda
attivamente perché il palazzo accanto, e quello accanto ancora, e tutti i palazzi di un centro storico patrimonio dell’umanità versino nelle medesime condizioni di degrado (probabilmente se lo chiedono i visitatori della mostra di Schneider alla Bevilacqua La Masa, vedendo la munnezza filmata nell’
exhibition tour girato durante la personale partenopea del 2006, proprio da Morra Greco).
Un’
intellighenzia finger food che preferisce, alla bisogna, riesumare l’atavico paternalismo nei confronti del
popolo, piuttosto che comunicare con una
middle class sempre più sconfitta e demotivata. Tutti ugualmente travolti dalla
débâcle educativa e partecipativa messa a nudo dalla mostra, che, tra la sera dell’opening e la mattina successiva, programmava ben tre performance.
Un disinteresse evidenziato non tanto dagli appuntamenti in sede col già citato Lulic e
Christoph Dettmeier (il cui
Country Karaoke era niente di più che una simpatica esibizione amatoriale), ma dal tiepido riscontro riservato a
Marzarama, azione (“linkata” in Fondazione con un lightbox) in cui
Alexandra Myr e
Lisa Anne Auerbach giocavano a “integrare” col marzapane le statue della Gipsoteca dell’Accademia di Belle Arti: il coinvolgimento non è andato al di là di qualche rapida affacciata e di qualche occhiata incuriosita, tanto da parte dei docenti quanto dei discenti.
Un fatto che la dice lunga sulla
reale diffusione dell’arte contemporanea in città (ammesso che si sia voluto
realmente divulgarla). Un segnale da valutare con umiltà e apertura dialettica. Altrimenti i due musei, le metropolitane, i regali di Natale al Plebiscito e le propalate
sinergie resteranno una fola per oziosi. E quei fetenti di scrittori ed editorialisti continueranno a dire che la borghesia da queste parti non vuole e non sa fare niente…
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mizzzicaaa!!!!
Anita hai proprio ragione, una buona parte dell'elite napoletana continua a fare finta di niente.
Si trastulla con i suoi sfizi intellettuali, mentre la città ormai ha quasi toccato il fondo.
Mostra “Fuori Tema”, asettica, disciplinatamente noiosa…
Non c’è da stupirsi che il 99% dei partenopei si senta escluso, o meglio, non invitato a partecipare a questi “eventi”.
Ma poi perché i mittleuropei dovrebbero intendersi di scenate napoletane? o forse la traduzione FORZATA è stato un estremo tentativo di rastrellare visitatori incuoriositi dal richiamo di sirene sanguigne e vasciajole?
Finchè sarà questa Napoli a chiamare, la vera Napoli non risponderà! (e mi sia concessa la citazione del mitico Luigi Necco)
Sarà un caso, ma l’unica volta che ho visto le zone limitrofe del Madre veramente popolate di giovani e curiosi è stato in occasione di quella fantastica manifestazione detta profeticamente MERDA… un ressa positiva di menti vogliose di qualcosa di nuovo, senza giacca e pochette…
Grazie Anita, sei la nostra VOX POPULI…
credo che qui siamo in presenza di un esempio potente e autorevole di ciò che vuol dire giornalismo, non solo d'arte. molto diverso da ciò che si legge in giro abitualmente, no?
cristian caliandro ha propio ragione. Alto giornalismo. Complimenti alla autrice.
anì, sì nu piezz' 'e femminone! uanemaaaa bell'!
pepe sei grande. eccezionale mi ti ca
posso staccarmi dal gruppo? ma che noia invece, ma perchè la lettura deve essere sempre in una direzione lamentosa dove è responsabilità di chi organizza degli eventi culturali etc etc se la città se ne cade a pezzi è colpa di morrabgreco jorg heiser etc etc.
Basta! solo a napoli si fanno commenti del genere
staccarsi dal gruppo è sempre buona cosa. specie quando serve a conquistarsi un po' di concentrazione per leggere più attentamente. e, possibilmente, cercare di capire.
Parlar male non costa niente,è facile,come il denigrare,il complicato è il fare.
Chi non fa non sbaglia mai,ma è una scelta semplice.