La nascita della tragedia. Esordio nietzschiano per l’
instant-show estivo dell’Archeologico, nella città che a giugno ha acceso i riflettori sulla seconda edizione del Teatro Festival Italia. Il concept ricorda un buon manuale di letteratura latina, attento a schematizzare la struttura del teatro romano, con i suoi debiti nei confronti di quello greco, e a rintracciarne i generi autoctoni, in cui la Campania
recitava la parte del leone.
Innanzitutto la divisione fra tragedia e commedia, tra
fabulae cothurnatae e
praetextae, ispirate a miti classici o eventi storici, e
palliatae e
togatae, decisamente più brillanti, fino alle Atellane, farse salaci e oscene nate in una regione
felix di attori e spettatori, a giudicare dal numero di edifici documentati e sopravvissuti. Uno dei quali “incastrato” nel centro antico partenopeo, inglobato nelle abitazioni soprastanti e circostanti, e ancor oggi cantiere di scavo e restauro. Qui, fra l’altro, si era esibito Nerone (segno che i Cesari guitti in Italia non hanno mai scarseggiato…): niente di più che un dilettante altolocato, a confronto di grandi come Ennio, Nevio, Plauto, Terenzio e,
retrocedendo, degli
autores greci, effigiati in marmo, come Euripide e Menandro (il quale, per inciso, ha fornito la denominazione alla casa pompeiana in cui si trova il suo ritratto).
Nomi che testimoniano un’epoca d’oro cui seguì un lungo periodo di decadenza: per non sparire, la drammaturgia dovette mescolarsi alla retorica e all’oratoria, soccombere alla “regolarizzazione” letteraria e adattarsi alla recitazione privata. Compromesso che, se da un lato regalò i capolavori di Seneca, dall’altro sancì la morte di quell’istrionismo che del teatro è linfa vitale (e la mostra non manca di ricordare Ambivio Turpione, celebre capocomico).
Raccolto il percorso, che insiste su reperti limitati per numero e varietà. Aprono i vasi decorati con scene dionisiache: il dio dell’ebbrezza, che invitava a “
gettare lo sguardo nell’abisso”, era infatti anche patrono del teatro. Poi dèi, miti e personaggi, raccontati con ceramografie, affreschi e, soprattutto, maschere, utili ad amplificare la voce e a cambiare ruolo, identificando
topoi come il giovane efebo, l’etera, il servo ricciuto, il chiacchierone brizzolato, l’anziano principale. Particolarmente importante il ritrovamento di quindici prototipi in gesso, di cui un artigiano pompeiano dovette servirsi per foggiare altre “facce” da indossare per esigenze di copione (o di canovaccio).
Chiudono la rassegna le Atellane, rappresentazioni “all’improvviso” fiorite nell’allora ubertoso hinterland fra Napoli e Caserta, con quattro personaggi fissi: Pappus (il vecchio tirchio e babbeo), Buccus (il ghiottone vanesio), Dossenus (il gobbo malizioso) e Maccus (lo sciocco), cui molti ascrivono le origini di Pulcinella.
Che altri studiosi, invece, collegano a Kikirrus, maschera teriomorfa dal naso adunco e dal nome onomatopeico, riecheggiante il verso del galletto. Una prosapia controversa, ma davvero niente male!