“L’uomo continua a fissare il mare. Silenzio. Di tanto in tanto intinge il pennello in una tazza di rame e abbozza sulla tela pochi tratti leggeri. Acqua. Nella tazza di rame c’è solo acqua. E sulla tela, niente”. Queste sono le parole con cui Alessandro Baricco, nel suo romanzo
Oceano Mare, introduce il personaggio di Plasson, il pittore che utilizza solo l’acqua del mare per dipingerlo. Questa è l’immagine che viene alla mente guardando i lavori di
Joanpere Massana (Ponts, 1968). Al Pan, il pittore catalano presenta una nuova serie di opere nelle quali la protagonista è l’acqua. Non intesa come un’idea astratta ma come un vero e proprio luogo geografico definito dai confini del fiume Segre, nel Paese dove vive l’artista, e il Mediterraneo, ponte di unione geografica, storica e culturale fra la Catalogna e Napoli.
Davanti alla complessità dei sentimenti che evoca il mare, alla molteplicità degli elementi che lo rendono vivo, trovandosi di fronte a qualcosa di così enorme e indescrivibile, la reazione dell’uomo non si può prevedere. Il personaggio di Baricco sceglie il silenzio, della voce e dei gesti: contempla il mare, mezzo e soggetto della sua rappresentazione, e quello che ottiene è una tela bianca. Massana, al contrario, decide di raccontare il Mediterraneo ad alta voce: lo fa rendendo tridimensionale la tela, il cui sfondo spesso resta bianco, e riempiendola anche con ceramica e terracotta, sassi e fossili, biglie e coralli che lasciano incontaminata la leggerezza dei dipinti.
La matericità di queste opere pittoriche, come si legge nel testo della curatrice Julia Draganovic, tradisce un debito contratto con la pittura informale del suo conterraneo
Antoni Tapiès, ribadito dal ricorso a segni legati al mito e al primitivismo.
Ma il “pittore” Massana va oltre, cercando ancora altri modi per comunicare. In un video scorrono in loop le immagini del “suo” Segre, in continuo movimento, mentre i sassi ne scuotono le acque e una voce di bimba chiede dove andranno a finire. E i rumori: prima la pioggia e poi il mare, il “nostro” Mediterraneo, che si fondono un po’ alla volta con il fiume. L’installazione che completa il video è formata da tavoli bianchi dove si scorgono le impronte di bambini all’interno delle quali appaiono simboli territoriali e dell’infanzia, da sempre presenti nell’opera dell’artista.
Come scriveva nel 2003 Maurizio Sciaccaluga nel catalogo della mostra
Un libro per Jana,
“l’utilizzo dei segni immaginifici dell’universo infantile gli permette di evitare ogni complicazione, di procedere in slalom tra i tranelli e le trappole del linguaggio e della storia dell’arte”. Il dialogo tra il presente e il passato è costante: dalla biografia dell’artista alla storia del mondo.