Parola d’ordine: semplicità. Del resto, come e perché stravolgere un glorioso edificio storico? Perché inseguire i prodigi dell’architettura, quando si possiedono i miracoli dell’archeologia? Infine, perché investire su uno show a enne zeri, quando si annaspa per l’ordinaria amministrazione? Il Museo Archeologico è, da anni, un cantiere. Oggi tocca a una sezione, domani a un’altra (bronzi e marmi di Villa dei Papiri sono ormai allocati, in autunno toccherà alla Collezione Farnese). Spesso però ci s’imbatte nell’amara sorpresa di sale chiuse per lavori in corso, o per annosa carenza di personale. Come dire: le preoccupazioni
vere qui sono altre.
Perciò non bisogna perdere di vista le finalità più urgenti. In primis, risistemare la collezione di affreschi vesuviani. Obiettivo raggiunto grazie a un imponente lavoro scientifico, che ha fruttato un monumentale volume e un nuovo allestimento per le pitture pompeiane (appellativo che “riassume” altresì i pezzi provenienti dagli scavi di Ercolano, Stabiae e Boscoreale).
Tesori da maneggiare con cautela e che ponevano, oltre agli ovvi problemi di conservazione, quelli dell’esposizione a un grande pubblico di non specialisti.
Questioni risolte innanzitutto con una prima sala interamente dedicata alle tecniche e ai materiali e poi, lungo tutto il percorso, con pannelli didascalici generosi d’informazioni: chi vuol legger lieto sia, anche se si può esser già paghi di guardare le figure.
E che figure. Vien subito da chiedersi dove fosse finito il corpo nei secoli bui, come avesse fatto a rimanere stecchita per centinaia di anni quell’anatomia umana qui così morbidamente e
naturalmente delineata, accarezzata da panneggi e definita da volumetrie. Idem per la prospettiva che, sebbene prevalentemente prestata all’ornamento, riesce comunque a colpire e
sfondare, talvolta con soluzioni audaci.
Le “scoperte” si susseguono, tra gli ambienti e i cubicoli che si propongono soprattutto di offrire dei reperti una ricomposizione ricondotta al proprio contesto: arte non come piacere d’élite, ma parte integrante del quotidiano, dalle decorazioni architettoniche alle scenette piccanti, dalla mitologia ai ritratti, alle nature morte.
Va da sé che – come onestamente premesso dai curatori – non sono tutti capolavori, essendo i pittori romani perlopiù “esecutori”, copisti di modelli greci; ma è indubbio che tra questi
documenti, pietre miliari per la codificazione degli stili nella pittura classica, allignino la bellezza e la creatività, trasparenti negli abbinamenti cromatici.
Fronte sul quale arrivano non poche sorprese. Dici Pompei e, automaticamente, vedi rosso: igneo, voluttuoso, profondamente “campano”. Ma, accanto, l’inaspettata freschezza dei verdi e degli azzurri irrompe dalla dominante ocra, intonata alle pareti, che regala alla “passeggiata” un impatto omogeneo e coerente.
Un restyling spartano, dunque, per filologia e pragmatismo. Una
lectio magistralis umile e utile.
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...ma da quando in qua il museo archeologico si chiama MANN? E basta con quest'ossessione degli acronimi! Soprattutto a Napoli ormai sta diventando una cosa ridicola (dopo il MADRE, attendo con impazienza il SORETA...).
che palle 'sti acronimi
Graecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio