Complesso paesaggio concettuale e persino museografico è quello disegnato dalla prima prova di
Transit. La linea-guida del “transito” moltiplica i punti di vista nel pluri-centrismo ma l’itinerario progettuale è un percorso coerente, che crea un panorama di associazioni mentali e rende possibili inedite connessioni.
Che sia nell’unire, non nel separare, l’anima del transito, è risultato evidente già nell’invasione dei manifesti urbani di
Empathy di
Mariangela Levita, che per un anno affiancherà le mostre della PR, connotandole di un’“immagine coordinata”. Arte “dislocata” e segnaletica, abbraccio creativo alla città martoriata che, nella manciata di secondi rubata ai vorticosi
transiti quotidiani, crea un improvviso cortocircuito di autocoscienza.
Non informa e non pubblicizza, il
brand visivo dell’artista, ma spiazza: chiede solo “empatia” d’arte. Ricorda che gli occhi possono esistere non solo per comprare. Porta il
museo nella strada, e proprio il Madre, spesso accusato di separatezza rispetto al contesto sociale.
La compenetrazione nel viaggio conduce anche
Domenico Antonio Mancini a ibridare le proprie simbologie culturali con quelle del duo egiziano con cui dialoga. Imponente oggetto scultoreo, l’aquila dorata di Mancini, tratta dalla bandiera dell’Egitto, sembra la macroscopica “tipicizzazione” neopop di un patriottismo esasperato. Ma, mentre la sua “solidità” si scioglie nel dissacrante contrasto col polistirolo in cui è forgiata, sfiorando un caustico kitsch, si scopre che italiani sono i colori dello stemma, e la scritta recita “Repubblica araba d’Italia”. Mordace denuncia del neocolonialismo che esautora subdolamente un popolo nel suo cuore.
Palesata, l’invadenza europea è poi snocciolata, cifre alla mano, dalla vicina grafica che freddamente svela il debito del Paese verso l’Italia. Volutamente ancor più “didascalico” è il terzo intervento dell’autore, che inserisce nell’audioguida della mostra
Alighiero & Boetti, ospitata negli spazi principali del Madre, commenti sulla storia neocoloniale dei Paesi visitati da
Boetti. Lontana dall’essere una “trovata”, l’opera, probabilmente la migliore della mostra, slitta in una riflessione metalinguistica che – mentre ricostituisce a cavallo del tempo un impossibile duo Mancini & Boetti parallelo alla coppia egiziana e induce nuovi sorprendenti percorsi museografici – stravolge i ruoli di “commentato” e “commentatore”, e restituisce all’arte un’attitudine conoscitiva e di denuncia.
Cavalca il tempo anche la ricerca di
Sherif El-Azma e
Nermine El Ansari (entrambi nati al Cairo, 1975) sulle costanti archetipiche e sui mutamenti del concetto di “collettività”. Se il passato remoto o vicino del collettivo è evocato dall’anfiteatro di Pompei e dal 3d del San Paolo, il suo presente e futuro dissolversi nel “connettivo” è sanzionato dal
Live at Pompei senza
audience dei Pink Floyd e dai commenti del web.
Nuovi riti per nuove community, sempre meno spettatrici e sempre più attrici di “transiti” virtuali.
Visualizza commenti
che boiata!
I tuoi sono solo versamenti di bile, e si riconoscono dal fatto che non argomenti le tue affermazioni.
E' facile (e da vigliacchi) bersagliare il lavoro degli altri con frasi stringate e distruttive che però non portano a niente.
Sei un invidioso e un vigliacco, e ti ho anche spiegato il perchè.
Si vede che il freddo non fa bene al fegato (almeno al tuo).
l'ennesima mostra che è solo un rigo in più nel curriculum degli artisti e dei curatori.
si salva solo l'intervento urbano di Mariangela Levita
... attenti che Cycelin vi invade lo spazio della project room, ci fa un soppalco e ci viene a vivere!