Il gonfalone dell’arte aniconica è un rettangolo. Fotografico. Datato 1915, riprende in scorcio la sala allestita da Malevic per la mostra 0.10 di Pietrogrado: i quadr(at)i tappezzano ogni centimetro della parete, occupando anche gli spigoli; esangui nei loro listelli bianchi e sottili, somigliano ad un esercito che abbia rotto le righe – preludio della imminente rivoluzione bolscevica? –, disordinato ancor più dai piccoli cartelli identitari e da una sedia che pare dimenticata da Kosuth.
Nell’allestimento pensato per la sua prima volta in Italia, Marc Breslin (New York, 1983) sembra riferirsi a quell’immagine d’epoca: la prima sala della galleria partenopea accoglie infatti geometriche pitture, che rifulgono di gialli come antiche icone bizantine, di viola lotteschi, di azzurri brillanti alla maniera del ‘400 italiano, bandendo dalla tavolozza l’alfa e l’omega della cromia, così cara all’avo russo. Non c’è più la necessità di superare «la distrazione, la disperazione psicologica» (De Micheli) del mondo, dell’oggettività, per riappropriarsi della «pura sensibilità plastica»: quando anche quest’ultima è stata abusata dai demagoghi del pensiero estetico e l’astratto declinatosi come concettualismo ha ridotto l’aspetto esecutivo e la materialità
dell’opera a suddito dell’idea progettuale, non rimane che ritornare alla vita, richiamare nelle tele il suono assordante del mondo. I monocromi del giovane artista newyorkese, allora, fuggono le quadrature suprematiste per somigliare ai basalti delle strade oppure, come accade spostandosi nella seconda sala, a partiture musicali tracciate da ingorghi di linee rette e curve che invitato alla lentezza, che, com’ebbe a dire Kundera in un omonimo e agile libro «C’è un legame fra lentezza e memoria, tra velocità e oblio. […] il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio». Per questa via, allora, il lavoro di Breslin si configura come una metodologia della percezione, che in barba al Galateo celebra il ritardo come possibilità d’attenzione sulle cose.
Solo un’andatura calibrata dell’occhio consente infatti di rompere il muro di vuoto che ottunde lo spirito nel mondo della velocità, la spessa corteccia che trattiene a distanza pubblico e opera riducendone le possibilità didattiche e curative dello spirito.
Ma la lotta non è solo dello spettatore: imbracciata una mazza da baseball, nell’ultima sala Breslin ferocemente si scaglia contro quel muro che ha acquisito intanto la consistenza di una parete di compensato: da divinità intoccabile tutta genio e sregolatezza l’artista ritorna ad essere uomo e l’arte storia.
carla rossetti
mostra visitata il 27 febbraio
dal 23 febbraio al 4 maggio 2012
Marc Breslin – Piano piano
Umberto Di Marino Arte Contemporanea
[exibart]