Il fattore campo può rivelarsi vincente, previi assetti ben calibrati e un oculato ingaggio degli stranieri. Eppure, nel modulo messo a punto fa capolino qualche smagliatura. Perché, se saggia è la strategia di valorizzare i campioni di casa, la copiosa carrellata di ritratti firmati da Tiziano (Pieve di Cadore, 1480 ca – Venezia, 1576) e dai maestri coevi accusa un po’ di stanchezza nel ritmo di gioco. Vacilla pure la tattica, già felicemente impiegata per Caravaggio e Velàzquez, di integrare la mostra nelle raccolte permanenti, sia perché i preziosi parati del piano nobile non costituiscono uno sfondo particolarmente discreto ed esaltante, sia perché la luce naturale impone talvolta una fruizione “contorta”. In più, lo schieramento di oltre 120 opere (dalla Maniera toscana all’Accademia bolognese, con tanto di “quote rosa”: Lavinia Fontana e Sofonisba Anguissola) non agevola l’attenzione, neutralizzata dai limitati sviluppi insiti nella tematizzazione e da una certa monotonia cromatica, insidiata per giunta dal dubbio che promuovere in prima squadra anche i panchinari non giovi ai fuoriclasse.
Il sentore, paradossalmente, è che il percorso smorzi proprio l’Apelle della Laguna, qui vincolato prevalentemente alla gamma di bruni, terre e rossi, coi quali giocoforza immortalò i propri altolocati committenti. Sfuggenti e impettiti, i potenti si consegnano con degnazione all’Eternità, avvolti in roboni scuri e mozzette purpuree, da cui lampeggiano barbagli di bianco e guizzi di carattere. Brani e sfumature che il Vecellio domina da par suo, riscattando la vaga atonia emotiva in una serie certa di capolavori che, da soli, sarebbero bastati a fareevento: la superba collezione Farnese, lo straordinario Autoritratto di Berlino, lo Jacopo Strada che, nella ricercatezza dell’abito, esemplifica la sintetica padronanza di qualsivoglia tessuto, dai ricchi velluti agli impalpabili veli, come quello calato post mortem sul cardinale Filippo Archinto. Non ha invece problemi a svelarsi Danae, posta a suggello dell’itinerario, dopo la
Punto nevralgico, il trittico formato dal vitreo Inglese e dall’ardente Aretino, insieme al Ritratto di Baldassarre Castiglione di Raffaello, ottenuto dopo una logorante trattativa col Louvre, quadro che apre il dolente capitolo dei prestiti promessi e non concessi, come la Fornarina dell’Urbinate e il Doppio ritratto di Giorgione, riprodotti in catalogo ma assenti.
Disdette che, in ogni caso, non intaccano granché un’economia espositiva che soffre l’inserimento –quasi irriverente– di alcuni pennelli fuor dalla grazia del Parnaso (in pole, Jacone e Maso da San Friano), laddove sarebbe stato meglio potenziare la sparuta presenza di Tintoretto e Lorenzo Lotto, storici antagonisti del Vecellio nel genere ritrattistico. Notevoli per resa pittorica, verità somatica e acume psicologico soprattutto i lumbard, all’epoca sudditi della Serenissima: Moroni, Savoldo (di fronte alla sua proterva parvenu par di leggere Gadda!) e Moretto. Sbuca finanche la pelata di Simone Peterzano, il quale, pur aureolandosi dell’appellativo “Titiani alumnus”, deve la propria fama al suo, di allievo: Michelangelo Merisi da Caravaggio. Ma questa è un’altra storia. E, se ci tenete a conoscerla, andate al piano di sopra…
anita pepe
mostra visitata il 24 marzo 2006
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Talvolta mostrare i cosiddetti "minori"(giudizio inappellabile?)non è peccato--I "grandi"( secondo una storiografia inappellabile?)si saranno pure guardati in giro.O marziani senza relazioni?Tutto è detto nel campo della critica d'arte?----Niente e rivisitabile ? Quale può essere il nostro contributo al presente?Un saluto
Antonio