Chi lo scorso anno ne avesse visto la retrospettiva al Mambo, troverebbe inevitabilmente deludente la mostra napoletana di
Luigi Ontani (Vergato, Bologna, 1943; vive a Roma). Ma anche chi non avesse gustato la corposa carrellata felsinea farebbe fatica a trovarla entusiasmante. Anzi, a
trovarla. Perché uno dei punti deboli di
CapoDioMonte coincide proprio con il suo (teorico) punto di forza: l’allestimento.
“
Invasore silenzioso”: così veniva presentato l’artista alla vigilia di una prova da tempo annunciata, e dunque con alte – e legittime – aspettative. Incursione d’uno spiritello che gioca a rimpiattino nelle stanze della Reggia, ma con una distribuzione così mimetica che la candida segnaletica dell’illustre ospite si confonde con quella del museo, disorientando uno spettatore già sazio di capolavori “residenti”.
Non sempre convincente la collocazione: senza una piantina, ad esempio, il visitatore medio difficilmente alzerà lo sguardo sulle sovrapporte; e discutibile la scelta di sistemare
La CadutaDEICiechiimManiBrancusiani, chiaramente “rivisitata” per l’occasione, all’ingresso della collezione Farnese anziché nei pressi dell’originale di
Bruegel, contrariamente a quanto era avvenuto per
Louise Bourgeois qualche mese fa
(eppure, un piccolo strappo all’esplicito rifiuto di un
dialogo frontale con le opere in loco sarebbe stato “ontanianamente” trasgressivo…).
Tra le ambientazioni meglio riuscite, la stanzetta murattiana disseminata di cimeli napoleonici: dalla foto dell’artista nei panni del Generale alla buffa
Tribù Tabu di “
grilli”, statuine irridenti l’iconografia del piccolo Cesare e dei cugini d’Oltralpe, fino alla deliziosa
RidonDanza Rondini (per inciso, in virtù della somiglianza lessicale,
Napoleone diventa un po’ forzosamente pretesto di legame con la città). Indovinate – e ovvie – anche le scarpine nel Salone da Ballo, col tocco fiabesco delle babbucce dalla punta all’insù.
Nel complesso, però, il mix tra (molta) antologica e (poco) site specific – con pezzi per giunta scarsamente valorizzati, vedi le foto male illuminate dai finti candelabri – s’inceppa spesso. Perfino nel piatto, anzi, negli
extrapiatti forti, ovvero il servizio da tavola per 13 (con buona pace della superstizione conviviale), apparecchiato nella Sala dei Banchetti su un desco fastosamente coperto di sete variopinte, dove, in assenza d’indicazioni più precise, i non iniziati stenteranno ad associare la stoviglia al personaggio ispiratore (tra i più “facili”,
Warhol,
Beuys,
Boetti,
De Dominicis).
Beninteso, le perplessità non riguardano il genio, qui offerto in tutte le sue sfaccettature (colto, kitsch, mistico, irriverente, esotico, provocatorio…), ma il concept di un percorso prevalentemente dipanato, quasi a ricalco, tra i lussuosi arredi dell’Appartamento Reale. Materiali leggiadri e smaglianti – vetri, ceramiche -, tra
consolle e specchiere, tavolini e camini. Ninnoli, squisitezze, fronzoli, galanterie, lepidezze.
In tanta vezzosità, alfine, l’ammiccamento al
genius loci, la cui Manifattura sfornò eserciti di damine e pastorelle biscuit. Consegnate al volgo con la stessa sublime, regale
nonchalance.
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Vogliamo parlare dell'allestimento della Bourgeois e della mostra con i capolavori dell'impressionismo e del '900? Ne vogliamo proprio parlare? Non UNA sola opera ben collocata!! Ma chi si occupa di allestimenti a Capodimonte?
Come sempre la firmataria spara a zero su tutti credendo di fare notizia.
Come sempre, la firmataria fa più notizia della mostra
mmm... quanta spocchia l'anita...