Preparatevi a una sorpresa. Perché l’antologica di
Luca Maria Patella (Roma, 1934) sconvolge l’angusta etichetta di “concettuale” con cui talora si (de)limita la produzione dell’artista, ma anche la consueta concezione di retrospettiva. Per Patella -pioniere negli anni ’60-’70 nel percorrere terreni quali il comportamentismo, l’interattività, il virtuale (si pensi ad
Alberi Parlanti), e nel respirarne l’humus che di lì a poco avrebbe fecondato la Neoavanguardia- un tradizionale percorso categorizzato in senso cronologico o tematico sarebbe risultato mortificante. Lo snello assetto adottato, che suggerisce delle scansioni per
media ma spesso le travalica, individuando settori più ampli di ricerca, più che suddividere fonde la produzione patelliana in un iter circolare di associazioni e rimandi, nel quale è anche lecito tornare sui propri passi. Proprio come nel vorticoso movimento spiraliforme della
Scrittura Enantiodromica, metafora visiva di un pensiero che, pur inciso netto e limpido nel cristallo, sprofonda sempre più nei gorghi dell’Io. O meglio dell’Es, del freudiano inconscio che è l’altro polo, insieme con la stringente consequenzialità del
logos, dell’arte di Patella. Che, come egli stesso dichiara, deve essere sì
“Es-pressione”, esteriorizzazione dell’anima che preme per rivelarsi, ma anche
“cultura, consapevolezza e conoscenza”.
Un concettuale molto poco freddo e assai più caldamente umano ed esistenziale, non scevro di lampi surreali e onirici, che nella mentalizzazione dei risvolti percettivi e psicanalitici non giunge mai a negare la dimensione oggettuale ed estetica dell’opera, approdando così a un’arte da definirsi piuttosto globalmente eclettica. Pulsioni e pensiero, astrazione e azione sono nell’
Indicazione attiva “Uomo Capire Sentire Fare!”, magistrale sintesi della condizione umana in un pugno di parole, e ancora nell’armonizzazione di natura/
physis e regola/
nomos che sottende alla lunga serie di teste e profili dei
Vasa Physiognomica, ardite costruzioni in negativo della forma dal vuoto, quasi Zen nello scoprire “la presenza nell’assenza”.
Ma il vaso è anche simbolo alchemico, e il richiamo all’alchimia, come junghiano strumento di analisi, è reiterato. Come nell’incandescente tramonto
Rubedo a Montefolle (nome fantasioso del paese toscano in cui Patella ha il suo studio estivo), celebrazione fotografica dello stadio psico-alchemico più perfetto. Perfetta anch’essa, nella pierfrancescana euritmia di linee e volumi. Psicanalitica è pure la citazione duchampiana dei
Wrong & Right Beds, pretesto percettivo per arrivare al profondo dell’anima, evocato anche nel tramonto di
Ut ima ames, che se letto allo specchio rivela la frase
“ma ami tu?”: ogni uomo può scoprire il suo segreto solo se si ama, e se capisce che, in fin dei conti, come ammonisce il titolo della mostra
Patella ressemble à Patella, somiglia solo a sé stesso.