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fino al 5.II.2006 Mimmo Paladino – Quijote Napoli, Museo di Capodimonte
napoli
Ad errar coi cavalieri erranti si può finir con l’errare, specie quando non si cede il passo. Questo il rischio corso da Mimmo Paladino che, nel dare la scalata al capolavoro di Cervantes, non ha alleggerito il proprio bagaglio...
di Anita Pepe
“Il Chisciotte […] fu innanzitutto un libro gradevole; ora è un’occasione di brindisi patriottici, di superbia grammaticale, di oscene edizioni di lusso. La gloria è una forma d’incomprensione, forse la peggiore”. Con queste premesse, qualsiasi confronto col visionario cavaliere cervantesiano sembrerebbe destinato a tradursi nella proverbiale battaglia contro i mulini a vento. E forse neppure Mimmo Paladino (Paduli, 1948) era del tutto pronto per l’epica sfida, quando è partito a spron battuto verso un capolavoro che, come tutti i capolavori, è pieno di difetti e di insidie.
Assurdo pretendere un lavoro filologico o narrativo, ma lecito attendersi un risultato conforme alle sofisticate e stimolanti dichiarazioni della vigilia, nelle quali l’artista enumerava tra i suoi ispiratori Pierre Menard, protagonista di una delle Finzioni di Borges, scrittore –e non ri-scrittore– delle avventure dell’hidalgo manchego, incarnazione di un metodo autoriale dal quale sarebbe scaturito pari pari, non per scimmiottamento ma per miracolosa palingenesi, proprio lo stesso Quijote.
Invece, pare che Paladino si sia smarrito nel “romanzo dei romanzi”, impervia miscellanea di generi letterari la cui convivenza, già nell’originale, è spericolata e fluttuante. E forse anche qui stava la trappola: nell’appassionata presunzione, o meglio nel donchisciottesco disegno, di condensare in un progetto espressivo compatto un testo che, invece, si dirama continuamente in una tortuosa e mirabolante serie di digressioni, invenzioni, divagazioni. Trovatosi in questo aureo labirinto, l’artista sannita, che evidentemente non ha rubato dal fantastico guardaroba di Cervantes l’abito mentale del picaro, ha preferito imboccare le più familiari e fortunate vie dell’arcaico e dell’archetipo, generando un (corto) circuito tra consolidata estetica personale e ambizioni interpretative, che alla fine non riescono a destare meraviglia(altro, seppur legittimo, “tradimento” della poetica barocca).
Minime simbologie corredano i nove scudi bronzei di Vento d’acqua che, come guerrieri in disarmo, si raggruppano attorno all’eroe assente, quel Cavaliere dalla triste figura del quale non solo manca la figura, ma le cui tracce sono svanite. Difficile ravvisarle negli enormi dipinti, come Apocalisse ventosa o Romanzo epico, dove, tutt’al più, questo frammentario racconto del Quijote si identifica con un turbine di elementi, sparpagliati dalle pale dei due lenti mulini-giganti. Neppure l’oro riesce a ravvivare una certa monotonia cromatica, impressione acuita dall’allestimento nella nuova, seminterrata sezione di Capodimonte, vasta ma sorda, a dimostrazione che uno spazio grande non basta a fare un grande spazio, tanto più che il restyling è ancora in corso (solo che il IV centenario della pubblicazione scadeva e l’annunciatissima mostra andava pur fatta).
Ben venga, allora, il didascalico, ma gradevole e fresco, taglio illustrativo degli acquerelli eseguiti per il monumentale Libro d’artista, valorizzati da un ambiente meno freddo. È forse questa la parte in cui Paladino, libero da artificiose sovrastrutture intellettualistiche, riesce a compiere efficacemente quell’eclissi del narratore, che non prescinde affatto dall’apposizione di una riconoscibile impronta soggettiva. Per il resto, l’autoreferenzialità torna nella Torre troneggiante in cortile, attraente rievocazione della mitica Montagna di sale, crudo cratere sul quale si arrampicano riferimenti e tributi, dai feltri beuysiani alle pignatte e alle scarpe, emblemi del randagio Sancho, ai fucili del bellicoso e folle caballero. Un’opera che, nella sua babelica struttura, pare tentare l’ultimo arrembaggio al sommo Jorge Luis. A proposito… la citazione nell’incipit? Borges, naturalmente. O, se preferite, Pierre Menard.
anita pepe
mostra visitata il 16 dicembre 2005
Mimmo Paladino, Qujiote, Napoli, Museo di Capodimonte, via di Miano 2. Orario: tutti i giorni ore dalle ore 8.30 alle 19.30; mercoledì chiuso. Biglietti: Intero Mostra/Museo: 7,50 €. Catalogo: Electa Napoli pp 176, ill 150 b/n e colore, € 50. Telefono evento: 848 800 288 (cellulari e estero 06 39967050)
[exibart]
cara anita ho visitato la mostra e mi è piaciuta.il tentativo dell’artista di “rappresentare”il Quijte di cervantes era opera titanica.vero vi è frammentazione e riduzionismo.ma di stanze ne sarebbero occorse 10-15 o forse più,per avere un quadro esaustivo dell’opera del cervantes.ma con tutta onestà credo che un opera letteraria sia difficile da rappresentare.Michelangelo ha impiegato 5 anni o più per rappresentare la creazione e poi il giudizio universale.tutto vero quello che dici e condivisibile.ma sono contento lo stesso di aver potuto ammirare una “traduzione del Quijte ad opera di un artista.spero che accada più spesso anche per altre opere letterarie.gli artisti come i registi devono confrontarsi con la letteratura,oltre che creare proprie “storie”.un saluto
Non mi sembra giusto parlare di “autoreferenzialità”, Paladino è un artista che ha raggiunto e oltrepassato una maturità di linguaggio e ha una sua cifra stilistica ben riconoscibile, sarebbe assurdo pretendere che vi rinunciasse, del resto anche altri artisti, nell’interpretare qualche capolavoro letterario, Picasso con Apollinaire per esempio, sono autoreferenziali, potrebbe mai essere altrimenti… diciamo che piuttosto era completamente assente, e sicuramente presente nell’opera, l’ironia e il senso del grottesco, che rendono il Don Chisciotte veramente “moderno”…Ciò di cui non si parla proprio nella recensione, stranamente, è il film.. che pure fa parte dell’opera, e che , Ahimè è anche il suo punto più debole. Pur coadiuvato dagli ottimi Lucio Dalla, Alessandro Bergonzoni, Peppe Servillo e Enzo Moscato il regista non sembra centrare alcuno dei motivi dell’opera pur interpretando liricamente gli splendidi, e magnificamente fotografati, paesaggi sanniti…Magistrale l’interpretazione di Mimmo Cuticchio,uno dei più grandi “pupari”, che ha tenuto la scena per più di un’ora con una narrazione orale, istrionica alla maniera di Dario Fo,avvicinandosi più degli altri all’interpretazione di Borges, con uno spettacolo che , non ha caso, si intitola “sentieri nel Don Chisciotte”
Cara Maya, non se ne parla per una precisa scelta, poiché al taglio recensorio mal si sarebbe adattata una commistione con la cronaca. Prestigiosa, certo, ma pur sempre cronaca. Non ti sfuggirà, infatti, che sia il film che la rappresentazione sono stati due “eventi” e, come tali, effimeri. In quanto alla debolezza del “film”, beh, la sua disamina meriterebbe ben altra sede e ben altro spazio che queste poche righe…
Grazie Anita, ben scritto.
volevo aggiungere che alle prossime elezioni comunali se hanno il coraggio di ripresentare “rosetta” perdono il mio voto e quello di quelli che riuscirò a convincere.
prima potevo camminare per strada con un minimo di serenità, adesso, specialmente la sera, non mi è più possibile.
Io non voglio vivere in queste condizioni per colpa di chi ci governa, che queste cose fa finta di non vederle e poi piange lacrime di coccodrillo quando ci scappa il morto innocente.
a cosa mi servono i musei in centro se poi, per arrivarci, mi devo organizzare mentalmente i percorsi anti-scippo e valutare bene cosa mettere in borsetta?
Infatti, se metti troppi soldi rischi di vederteli rapinati, se sono troppo pochi rischi di scontentare il galantuomo che ti rapina e beccarti una coltellata o una violenza sessuale.
E’ proprio bello vivere a napoli, non trovate?
cara gemma non preoccuparti che alla prossima toccherà ad un canditato della sinistra.sarebbe peggio un uomo di mastella.al pensiero mi vengono i brividi.un saluto
evviva anita pepe, evviva exibart che ci dà ancora la possibilità di leggere della vera critica d’arte. Mi inchino, signora pepe!