Dopo i fasti degli Annali delle Arti e qualche episodio espositivo non particolarmente memorabile, il Museo Archeologico torna a rivestire felicemente la funzione di palcoscenico pro tempore per l’arte contemporanea e, scevro da improbabili pretese di contaminazione, accoglie una collettiva piccola ma, per concept ed esiti, di qualità. Non solo per i prestigiosi nomi in passerella, ma perché, nel calderone giallo mimosa degli eventi organizzati per il mese della donna, riesce a sfuggire al capestro di una sterile situazione “time-and-sex-specific”. Così la presenza delle quattro protagoniste non costituisce escamotage attrattivo o criterio preponderante, ma diventa elemento accidentale –meglio: normale– di un progetto conciso e fruibile, non disturbato dall’incombere dell’occasione. Merito ascrivibile alle due curatrici, che curatrici di professione non sono, ma giornaliste, le quali tuttavia non si lasciano intrappolare dalla retorica del mestiere ed evitano di riproporre la diade emancipazione – discriminazione quale unico oggetto/soggetto adatto alla circostanza. Una mostra, insomma, non “al femminile” o femminista. Ma una mostra, che mette in campo uno sguardo ampio e acuto. Campo lungo, medio o ravvicinato, visto che le opere ineriscono perlopiù alla videoarte, con aggiunta di foto o still: pochi ma emblematici pezzi, in un allestimento, purtroppo, alquanto sacrificato (al quale, piacevole imposizione, si arriva dopo aver ammirato i reperti di Villa dei Papiri).
Apre, forse per empatia museologica, la vetrina sotto la quale l’israeliana Michael Rovner (Tel Aviv, 1957; vive in Israele e a New York) custodisce la sua poetica della memoria, proiettando sulle pietre di “Roma” la materia viva di una storia palpitante. Caratteri incerti, guizzanti fiammelle di un passato scottante, raccontato in modo non incendiario ma con pudica e volatile impronta, soprattutto nei tre schermi digitali di “Ash”, dove, come fuochi appena spenti di bivacchi e devastazioni, deboli fumi esalano nel deserto di una luce malaticcia di liquida ambra. Decisa e indelebile, di contro, ripetuta e metodica, la traccia bianco lutto che il pennello dell’afgana Lida Abdul (Kabul 1973, dove vive) spalma sulle macerie delle case bombardate intorno a Kabul (e il titolo, White house, più che al colore adoperato, pare riferirsi a qualcos’altro…) e sulla schiena di un uomo. Atto, quest’ultimo, che, interpretato quale “trasgressione” ad una condizione di subalternità femminile nel mondo islamico, offrirebbe uno spunto di riflessione su una sharia tribale e maschilista. Lettura che in ogni caso, nonostante la partecipazione di due creative provenienti da culture musulmane, non è programmata né automatica. Così anche il video dell’algerina Zineb Sedira (Parigi, 1963; vive a Londra e ad Algeri) può lavorare sulla coppia uomo – donna senza incrostazioni politiche, ma con netto lirico, nell’atmosfera splendente e sospesa di un rudere coloniale, il diroccato hotel “Sephir”, set di uno sfiorarsi parallelo di esperienze ed emozioni. È invece un pugno allo stomaco “Plomo” (Clases para aprender a manejar armas) di Regina José Galindo (Città del Guatemala, 1974, dove vive), forse più delle performance cruente che hanno catapultato la sudamericana nell’Olimpo dell’artbiz. Qui la piccola torna a scuola. Non tra i banchi, ma in uno squallido poligono di tiro.
Per imparare la lezione come la più diligente e concentrata tra le allieve, come se districarsi tra un revolver e un fucile fosse la più banale e meccanica tra le occupazioni. E alla fine, firma e data i bersagli sforacchiati, provocatoriamente “nobilitandoli” con gesto d’artista. Lei, Regina, mira dritto al bersaglio e fa fuoco. Un fuoco raggelante.
anita pepe
mostra visitata il 5 marzo 2007
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Sebbene ci sia - sottotraccia - l'operazione emancipiamo la donna (ne ha davvero ancora bisogno?, la mostra è piccola ma godibile, con due picchi:
1) eccezionalmente toccante il video girato a Kabul...ma il bianco è il colore del lutto solo pergli arabi?
2) eccezionalmente noioso e banaleil video di Sedira, non ho avuto la forza di vederne la fine!