A quasi un secolo dalla sua scomparsa, giustizia è resa a
Vincenzo Gemito (Napoli, 1852-1929), il più espressivo degli artisti del Risorgimento napoletano, finalmente protagonista di una mostra monografica che ne celebra la completa produzione artistica e ne offre barlumi di memoria attraverso ritagli di vita privata.
Il profondo amore per il “bello”, inteso nella più ellenica delle sue accezioni, spinse l’artista a ricusare sin dai primi anni della sua formazione gli accademismi retorici e a ricercare nelle preziose sculture conservate al Museo archeologico di Napoli i suoi unici maestri. Le sue esperienze da autodidatta diedero alla luce un naturalismo pittorico
sui generis, dove un lessico espressionista veniva forgiato in strutture classiciste.
La razionalizzazione di una produzione artistica decisamente eclettica e particolarmente dispersa tra i collezionisti è il risultato di un complicato lavoro svolto a braccetto dall’Istituto di Studi Filosofici e dalla Soprintendenza per il Polo Museale di Napoli, il cui direttore, Nicola Spinosa, nell’occasione si congeda col non celato rammarico per aver visto incompiuta la rassegna sul barocco napoletano, programmata come avvenimento di chiusura del ciclo dedicato all’arte dell’Ottocento, che ha annoverato tra i protagonisti dei suoi eventi
Pitloo,
Giacinto Gigante e
Domenico Morelli.
E dunque, in mostra, i celebri bronzi del
Pescatoriello e di
Giuseppe Verdi, insieme alle storiche collezioni Buonuomo e Consolazio, impreziosite dal
Moretto, dal
Fiociniere, dallo
Scugnizzo. Ma non solo. Le argille giovanili e un’intera area dedicata a foto di vita privata; forte è l’impatto con gli scatti che ritraggono l’artista nel suo studio, ormai stancamente anziano ma avvolto, tra i fumi dell’immancabile pipa, da una pienezza filosofica.
Al secondo livello, più stanze della villa accolgono gli oltre novanta dipinti e disegni a tratto. Durante il percorso, oltretutto, il confronto con il
Gavroche di
Medardo Rosso e con
La gravida dormiente di
Adriano Cecioni restituisce il racconto di un’Italia che drammaticamente cercava la sua unità mentre per la prima volta leggeva
Delitto e castigo. Al volgere del percorso espositivo, i bozzetti per l’armatura della statua di Carlo V, la cui resa in marmo, statica luministicamente, com’è noto fu odiata a tal punto dall’artista da causare l’esplosione di quella malattia mentale durata oltre dieci anni.
La mostra, decisamente esaustiva per gli inediti spunti di riflessione offerti, presenta come solo limite una logistica che difetta d’intelligibilità. Il percorso è decisamente macchinoso e poco felice appare la scelta di suddividere asetticamente le opere in due settori, uno dedicato alle collezioni private e l’altro a una raccolta per temi e modi espressivi.
Una più banale sistemazione cronologica avrebbe probabilmente meglio reso un percorso di vita così complicato, spesso tacciato per il sincero amore rivolto alle forme dei giovani modelli raccolti dalla strada, e graffiato dal lungo periodo di follia, i cui segni feroci s’impressero persino sul volto della figlia. Follia che l’artista napoletano rifuggì, ritirandosi durante gli ultimi anni di vita nel culto degli eroi ellenici, magnificamente cesellati nelle preziose opere d’oreficeria.
Così, mentre l’Italia tutta invocava nuovi ideali rincorrendo il futuro, Vincenzo Gemito, in modo disincantato, ancora una volta rivolgeva lucidamente lo sguardo al passato.
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Concordo pienamente le riflessioni fatte sull'allestimento. Bell'articolo , compliementi all'esecutore!