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26
novembre 2007
fino al 6.I.2008 Luciano Fabro Napoli, Madre
napoli
Cosa accadeva nella fucina di Fabro prima che l’artista raggiungesse la fama nell’alveo dell’Arte Povera? Questo svela la mostra che il Madre gli dedica. Ripartendo dall’inizio. Rivendicando l’esordio...
Materia indigeribile. Cibo difficilmente assimilabile, che stimola l’appetito piuttosto che saziarlo. Così Luciano Fabro (Torino, 1936 – Milano, 2007) definiva la scultura prima di passare il testimone ai posteri. Sintetizzando l’esito del suo lavoro: suggerire spunti. Questo voleva dimostrare, presentando al Madre un contenuto corpus di opere, circoscritte al periodo 1963-68. Senza immaginare che l’evento si sarebbe trasformato nel suo primo tributo post mortem.
Mutamento in itinere pesato come un macigno sul giudizio del pubblico, poiché la mostra non si configurava come retrospettiva. Chi si aspettava un’esaustiva antologica è rimasto deluso dall’esiguità dei lavori esposti, non rappresentativi di un’attività quarantennale. Scarna, ma fedele alle intenzioni annunciate dal titolo: Didactica magna, Minima moralia. Indagine sulle potenzialità del mezzo plastico, dispiegate didatticamente, come un manuale visivo. Riflessione sul mutamento del valore dell’opera. Doppio binario, confluito nella scelta di tornare alle origini, quando Fabro cominciava le sue sperimentazioni senza prevedere la sovranità del mercato, sotto il cui giogo si sarebbe profilata la riduzione dell’opera a gadget. È dunque un monito quel Ricomincerò! che campeggia sulla parete d’ingresso. Nel percorso, cronologico, si individuano nuclei di ricerca.
L’allestimento minimale rende i lavori godibili, nonostante il museo non vanti ampi spazi. Tubo da mettere tra i fiori è l’incipit, fila di piante attraversata da una barra d’acciaio. Connubio fra staticità (del tubo) e morbidezza formale e cromatica (del fogliame). Decollo verso un plasticismo propulsivo, che prosegue indagando l’equilibrio in opere come Squadra, coppia di aste metalliche che formano un angolo aggettante fra parete e soffitto. Il segmento verticale -la cui estremità è libera- grava su quello orizzontale e, squilibrando la composizione, instilla il dubbio che la stanza sia sbilanciata. Semplice nella forma e complessa nel contenuto, lontana dalla rigida geometricità delle coeve ricerche minimal e gestaltiche.
In effetti, i referenti d’esordio sono nostrani, Fontana in primis. Sua è la distruzione dell’immobilità del piano, trasformato in ricettore e catalizzatore di energie. Con Buco, Mezzo specchiato mezzo trasparente, Tondo e rettangolo, Fabro ne segue la scia. L’alternanza di trasparenze e riflessi delle superfici crea una dimensione che unifica materia, spazio e tempo. Affinità che si fa omaggio nella serie tautologie con Concetto Spaziale. Struttura costituita da due ambienti attigui. L’accesso è consentito solo al primo mentre è negato al secondo da un quadro di cui è visibile il retro. Cosa si cela oltre la tela? Curiosità che diventa abolizione delle categorie artistiche.
Pittura, scultura e architettura sono condensate in un unicum. A cui si aggiunge una componente performativa, dominante in lavori come In cubo, sorta di dado agibile, diaframma che separa dal caos esterno. E negli Indumenti, bizzarri posaseni, bandoliere “reggigenitali”, calzari cuciti addosso a chi -via la pruderie- avesse il coraggio di infilarseli. Oggetti che rendono epidermico il rapporto artefice/fruitore. Rimando alla fabbrilità che cela fatica. Necessaria, un tempo, per lucidare il Pavimento, da proteggere sotto uno strato di giornali affinché il calpestìo non la vanificasse.
È il 1967. Incede la gestualità poverista, l’osmosi tra “arte e vita”. A settembre, la collettiva che decreterà la nascita dell’Arte Povera. Ma questa è un’altra storia.
Mutamento in itinere pesato come un macigno sul giudizio del pubblico, poiché la mostra non si configurava come retrospettiva. Chi si aspettava un’esaustiva antologica è rimasto deluso dall’esiguità dei lavori esposti, non rappresentativi di un’attività quarantennale. Scarna, ma fedele alle intenzioni annunciate dal titolo: Didactica magna, Minima moralia. Indagine sulle potenzialità del mezzo plastico, dispiegate didatticamente, come un manuale visivo. Riflessione sul mutamento del valore dell’opera. Doppio binario, confluito nella scelta di tornare alle origini, quando Fabro cominciava le sue sperimentazioni senza prevedere la sovranità del mercato, sotto il cui giogo si sarebbe profilata la riduzione dell’opera a gadget. È dunque un monito quel Ricomincerò! che campeggia sulla parete d’ingresso. Nel percorso, cronologico, si individuano nuclei di ricerca.
L’allestimento minimale rende i lavori godibili, nonostante il museo non vanti ampi spazi. Tubo da mettere tra i fiori è l’incipit, fila di piante attraversata da una barra d’acciaio. Connubio fra staticità (del tubo) e morbidezza formale e cromatica (del fogliame). Decollo verso un plasticismo propulsivo, che prosegue indagando l’equilibrio in opere come Squadra, coppia di aste metalliche che formano un angolo aggettante fra parete e soffitto. Il segmento verticale -la cui estremità è libera- grava su quello orizzontale e, squilibrando la composizione, instilla il dubbio che la stanza sia sbilanciata. Semplice nella forma e complessa nel contenuto, lontana dalla rigida geometricità delle coeve ricerche minimal e gestaltiche.
In effetti, i referenti d’esordio sono nostrani, Fontana in primis. Sua è la distruzione dell’immobilità del piano, trasformato in ricettore e catalizzatore di energie. Con Buco, Mezzo specchiato mezzo trasparente, Tondo e rettangolo, Fabro ne segue la scia. L’alternanza di trasparenze e riflessi delle superfici crea una dimensione che unifica materia, spazio e tempo. Affinità che si fa omaggio nella serie tautologie con Concetto Spaziale. Struttura costituita da due ambienti attigui. L’accesso è consentito solo al primo mentre è negato al secondo da un quadro di cui è visibile il retro. Cosa si cela oltre la tela? Curiosità che diventa abolizione delle categorie artistiche.
Pittura, scultura e architettura sono condensate in un unicum. A cui si aggiunge una componente performativa, dominante in lavori come In cubo, sorta di dado agibile, diaframma che separa dal caos esterno. E negli Indumenti, bizzarri posaseni, bandoliere “reggigenitali”, calzari cuciti addosso a chi -via la pruderie- avesse il coraggio di infilarseli. Oggetti che rendono epidermico il rapporto artefice/fruitore. Rimando alla fabbrilità che cela fatica. Necessaria, un tempo, per lucidare il Pavimento, da proteggere sotto uno strato di giornali affinché il calpestìo non la vanificasse.
È il 1967. Incede la gestualità poverista, l’osmosi tra “arte e vita”. A settembre, la collettiva che decreterà la nascita dell’Arte Povera. Ma questa è un’altra storia.
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dal 20 ottobre 2007 al 6 gennaio 2008
Luciano Fabro – Didactica magna, Minima moralia
a cura di Silvia Fabro e Rudi Fuchs
Madre – Museo d’Arte Donna REgina
Via Settembrini, 79 (zona San Lorenzo) – 80139 Napoli
Orario: lunedì, mercoledì, giovedì e domenica ore 10-21; venerdì e sabato ore 10-24
Ingresso: intero € 7; ridotto € 3,50; lunedì gratuito
Catalogo Electa
Info: tel. +39 08119313016; www.museomadre.it
[exibart]