Materia indigeribile. Cibo difficilmente assimilabile, che stimola l’appetito piuttosto che saziarlo. Così
Luciano Fabro (Torino, 1936 – Milano, 2007) definiva la scultura prima di passare il testimone ai posteri. Sintetizzando l’esito del suo lavoro: suggerire spunti. Questo voleva dimostrare, presentando al Madre un contenuto
corpus di opere, circoscritte al periodo 1963-68. Senza immaginare che l’evento si sarebbe trasformato nel suo primo tributo
post mortem.
Mutamento
in itinere pesato come un macigno sul giudizio del pubblico, poiché la mostra non si configurava come retrospettiva. Chi si aspettava un’esaustiva antologica è rimasto deluso dall’esiguità dei lavori esposti, non rappresentativi di un’attività quarantennale. Scarna, ma fedele alle intenzioni annunciate dal titolo:
Didactica magna, Minima moralia. Indagine sulle potenzialità del mezzo plastico, dispiegate didatticamente, come un manuale visivo. Riflessione sul mutamento del valore dell’opera. Doppio binario, confluito nella scelta di tornare alle origini, quando Fabro cominciava le sue sperimentazioni senza prevedere la sovranità del mercato, sotto il cui giogo si sarebbe profilata la riduzione dell’opera a gadget. È dunque un monito quel
Ricomincerò! che campeggia sulla parete d’ingresso. Nel percorso, cronologico, si individuano nuclei di ricerca.
L’allestimento minimale rende i lavori godibili, nonostante il museo non vanti ampi spazi.
Tubo da mettere tra i fiori è l’incipit, fila di piante attraversata da una barra d’acciaio. Connubio fra staticità (del tubo) e morbidezza formale e cromatica (del fogliame). Decollo verso un plasticismo propulsivo, che prosegue indagando l’equilibrio in opere come
Squadra, coppia di aste metalliche che formano un angolo aggettante fra parete e soffitto. Il segmento verticale -la cui estremità è libera- grava su quello orizzontale e, squilibrando la composizione, instilla il dubbio che la stanza sia sbilanciata. Semplice nella forma e complessa nel contenuto, lontana dalla rigida geometricità delle coeve ricerche minimal e gestaltiche.
In effetti, i referenti d’esordio sono nostrani,
Fontana in primis. Sua è la distruzione dell’immobilità del piano, trasformato in ricettore e catalizzatore di energie. Con
Buco,
Mezzo specchiato mezzo trasparente,
Tondo e rettangolo, Fabro ne segue la scia. L’alternanza di trasparenze e riflessi delle superfici crea una dimensione che unifica materia, spazio e tempo. Affinità che si fa omaggio nella serie
tautologie con
Concetto Spaziale. Struttura costituita da due ambienti attigui. L’accesso è consentito solo al primo mentre è negato al secondo da un quadro di cui è visibile il retro. Cosa si cela oltre la tela? Curiosità che diventa abolizione delle categorie artistiche.
Pittura, scultura e architettura sono condensate in un unicum. A cui si aggiunge una componente performativa, dominante in lavori come
In cubo, sorta di dado agibile, diaframma che separa dal caos esterno. E negli
Indumenti, bizzarri
posaseni,
bandoliere “reggigenitali”,
calzari cuciti addosso a chi -via la pruderie- avesse il coraggio di infilarseli. Oggetti che rendono epidermico il rapporto artefice/fruitore. Rimando alla fabbrilità che cela fatica. Necessaria, un tempo, per lucidare il
Pavimento, da proteggere sotto uno strato di giornali affinché il calpestìo non la vanificasse.
È il 1967. Incede la gestualità poverista, l’osmosi tra “arte e vita”. A settembre, la collettiva che decreterà la nascita dell’Arte Povera. Ma questa è un’altra storia.