Imbarazzante. Così fu per
Satoshi Hirose (Tokio, 1963; vive a Milano e Tokio) il profumo dei limoni, “incontrati” vent’anni fa a Napoli. Dove, folgorato, si stabilì per due mesi tra le sgretolate pietre di Forcella, luogo di forza dove gli estremi si toccano e nulla più può restare incontaminato. Chissà, forse fu un esercizio spirituale, una di quelle prove della volontà per forgiare lo spirito che rinvia immancabilmente all’inflessibile etica samurai.
Un arcaico e un po’ stravagante titanismo di cui, in ogni caso, non c’è traccia in questa personale, dove questo figlio dell’“impero dei segni” di segni ne lascia pochi, labili ma inequivocabili. Disarmante è infatti la semplicità di questa mostra che è, soprattutto, una mostra
in linea. Coerente cioè con la filosofia e la programmazione di una galleria incline a mettere sul tappeto questioni “politiche” (e non scopertamente ideologiche, appannaggio questo del basso profilo radical-chic), in allestimenti cromaticamente e spazialmente omogenei, con qualche “link” ideale col passato.
E così la costellazione di legumi sparpagliati sul blu intenso dei dipinti non può non far pensare agli imponenti quadri di
Alberto Di Fabio, mentre il delicato connubio tra acqua e fiori di
Vertumnus e il
Giardino della meditazione, più che un pollice verde zen rievoca per analogia certe soluzioni di
Vedovamazzei, con meno ironia ma con un pizzico di poesia in più.
Eppure, tra i preziosismi di un percorso che per evidenziare la trave nell’occhio della globalizzazione ne fa rifulgere la pagliuzza (d’oro), si cela l’Arte Povera. Presa alla lettera nei materiali ma
cum grano salis, anzi con la pepituzza aurea di cui sopra persa nel volteggiante
microcosmo di legumi inglobati in una teca di cristallo. E, a sfoggiare un altro po’ di conoscenza scolastica di cultura nipponica, si potrebbe leggere il succitato
Giardino come un bonsai ipertrofico nel quale il problema ambientale vive la stridente anomalia di un culto degenerato in sadica preservazione e ricreazione di una natura chiusa a riccio dal paralume.
Una costrizione sussurrata da un implacabile bisogno di perfezione e di controllo, che ammette la trasgressione intellettuale d’un impercettibile scarto (il diametro irregolare e la pendenza di
Vertumnus, accuratamente studiati per lasciar galleggiare le corolle a pelo d’acqua), ma recinta in una specie di lattiginosa colonna-box lo svettare dell’albero dei limoni nel
Giardino dei sensi.
Il lato elegante e rarefatto di una violenza sinestetica e sottilmente erotica. L’inganno dell’ebbrezza per sublimare la negazione della libertà.
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Un mostra molto bella, areiforme e densa allo stesso tempo, e un'ottima recensione, complimenti a Umberto e ad Anita, oltre che a Hirose, naturalmente.