Quando il “quieto vivere” si trasforma nell’inesorabile “quiete prima della tempesta”. Le immagini di
Lamberto Teotino (Napoli, 1974; vive a Vicenza, Milano e Roma), giovane artista che si è schierato in lizza per la finale del Premio Terna, del Premio Celeste e del Cedefop, sono inquietantemente perfette e rendono intollerabilmente inquietante la perfezione.
La cura maniacale del dettaglio, la nitidezza indicibile degli scatti, la paradossale levigatezza delle cornici da lui stesso scelte – che così diventano parte integrante dell’opera – sono il troppo azzurro cielo prima del tornado. Gli squarci improvvisi a tradimento, il “cancro” inavvertito di sottili deformazioni, l’inatteso dettaglio straniante sono il lampo e il vortice che spazzano via le superficiali certezze e tranquillità.
E non a caso oscilla tra apparente armonia e sostanziale angoscia proprio Teotino, la cui ricerca si situa fra il digitale e l’analogico. La sua metodologia operativa, con virtuale e artigianale che si dissimulano l’uno nell’altro, è la miglior “pulce” per stimolare nell’orecchio del fruitore un dubbio critico su cosa sia reale nell’epoca della riproducibilità e della virtualizzazione totali. È proprio questo, in filigrana, il motivo della sospesa ansia che pervade le sue opere.
L’improvvisa sensazione d’irrealtà inizia con
Dark Natural Meetings, che smentisce l’apparenza industriale con la realizzazione artigianale. Tradisce anche l’organicismo zoomorfo di
Tenebrah, ammasso cellulare o globulo animale dalle fluide iridescenze, che in realtà cela la rielaborazione digitale di una goccia.
Il male di gaudio abbraccia, nelle voluta barocche di una cornice simil-artigianale, lo scatto levigato di un volto, al contrario, in tattile disfacimento formale. Per poi palesare, con velato autocompiacimento ironico, che la cornice è Ikea e che il viso spettrale è realmente plasmato nel gesso.
Sottile è anche il subdolo dubbio instillato da
Mortis,
apotheke di cosmetici affetta da striscianti deformazioni e cancrene dell’immagine. La
Pharmacy di
Damien Hirst si è qui ridotta al reparto cosmetico, ma non meno pregnante è la critica alle ossessioni, in questo caso estetiche, della società.
Se le opere incontrate sinora sono l’insinuante ansia che imperla la fronte,
Sarcophaga è il morso del panico che toglie il respiro e sbrana il cuore. La “pulce nell’orecchio” della percezione si è trasformata in un nugolo orrorifico di mosche, che si avventa sulla ferita squarciata di una superficie drammatizzata dall’accelerazione prospettica dell’inquadratura obliqua. L’incubo che attenta alla normalità, la calamità che irrompe nel reale.
Come in
Rheum A, orripilante secrezione morbosa di un “mondo vero” malato inguaribilmente di menzogna, o nella nube tempestosa di
Raskolnikov. La tragedia è proprio non riconoscere la verità, tanto da scambiarla per frode, come nell’implausibile ma non ritoccato paesaggio di
Il rasoio di Occam.
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bella mostra, una delle poche viste ultimamente a Napoli
a.a. aveva scritto un commento che è stato rimosso, prego cortesemente di ripristinarlo, grazie mille.