E quindi entrammo a riveder le stelle.
Adam Cvijanovic (Cambridge, 1960; vive a New York) mostra le due facce del caos: quella,
volgare, di confusione, e quella, mitologica, di vuoto anteriore alla generazione del tutto.
Ed è puro horror vacui quello che alimenta la pittura
americana, rapida e di buon mestiere, del suo affresco “portatile”: una “
floating city” visionaria e trash che, pur nel frullatore visivo di oggetti e soggetti contemporanei (dallo skateboard al flacone di detersivo, dalla casa all’insegna del benzinaio), in un azzurro dalle remote preziosità lapislazzulo, guarda palesemente alla grande tradizione rinascimentale e barocca, agli – per dirla coi critici d’una volta – “
arditi scorci” sperimentati quando la prospettiva smise d’essere religione scientifica per diventare emozionante effetto speciale.
Cascasse il cielo, il consumismo non si ferma, pare dire l’artista. O, piuttosto, tutto è andato a gambe all’aria? In ogni caso, il ghigno c’è: come spiegare altrimenti l’ampollosità di un titolo come
Il fabuloso giardino di rose?
Il
sic transit si fa ancor più mordace – e minatorio – nella galleria di monocromi dedicati agli ultimi dodici presidenti degli Stati Uniti d’America. Ancor più diretti i riferimenti, iconografici e letterari, all’antico. Un occhio al
De vita Cesarum di Svetonio, un altro all’archeologia, ed ecco che Cvijanovic ritrae la “sporca dozzina” sulla falsariga di antiche sculture in marmo e bronzo. “Sporca”, s’intende, giacché sgretolata e deturpata. Ma non per scimmiottamento rovinistico, bensì secondo un preciso gioco di allusioni, talvolta ironiche: la testa sciupata di Kennedy commemora l’attentato di Dallas, l’interno cavo del cranio di George W. Bush pesa come un giudizio politico, la bocca cancellata di Nixon paga il fio del Watergate, mentre Bill Clinton dischiude le labbra ad anello…
Devoto alla realtà nei “
portable murales”, l’artista la tradisce con ambiguo iperrealismo nei quattro dipinti che raffigurano basi missilistiche dismesse. Luoghi fittizi ma verosimili, il cui abbandono addita l’ingloriosa fine del sogno americano – e non – di conquistare l’Empireo, dopo la Guerra Fredda, il primo uomo sulla Luna, lo Scudo Spaziale e la gara a chi le sparava (le navicelle) più lontano.
Di fronte a tanto agitarsi, di fronte all’arrembaggio dell’infinito tentato dai minuscoli uomini, Cvijanovic manda a sbattere contro il severo, irremovibile, aristocratico – e aristotelico –
Cielo delle stelle fisse di dantesca memoria. Non una carta del cielo, ma un grande mare buio, punteggiato di schizzi bianchi. E, come nel
Paradiso, non resta che l’afasia davanti all’immensità siderale, che senza fatica ristabilisce la sua supremazia. Che può opprimere, o consolare.
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Mostra ruffiana. Ma si tratta di artigianato. Un'ikea più raffinata e ricercata. Grande rispetto, ma basta intendersi su i termini