La grande mostra organizzata dal Comune di Napoli al Castel dell’Ovo ed al Maschio Angioino si è rivelata in buona parte una delusione. Grandi fondi profusi, importanti nomi dell’arte contemporanea, spazi estremamente suggestivi e non un tema che abbia ispirato la scelta od i lavori di ogni artista. La sensazione di confusione è accentuata ancor più dal catalogo dove non si distingue tra i lavori esposti e quelli precedenti degli artisti.
Cominciamo dal titolo: “Dialoghi Europei d’Arte”. Leggiamo dal catalogo il motivo per cui il curatore della mostra ha scelto questo titolo che sembra introdurre piuttosto ad un convegno: «Questo progetto (…) intende proporre un’orchestrazione di diverse installazioni, realizzate dagli stessi artisti partecipanti, all’interno di spazi loro assegnati, e così diversi dall’usuale White-Cube – spazio neutro all’interno di musei e di istituzioni parallele.
Gli spazi per i “Dialoghi” sono situati in costruzioni storiche, presenti nell’ambiente urbano di Napoli, sul lungomare, di fronte all’impressionante golfo e al Vesuvio.
Questo tipo di coordinamento di luoghi saturi culturalmente e di situazioni naturali si riflette e si intesse all’interno del contenuto e del concetto della manifestazione. Un evento che offre un Dialogo tra il progetto artistico individuale e il suo spazio (…) offre soprattutto un dialogo con i visitatori che si trovano all’interno di uno spazio espositivo, oppure che si muovono da un luogo verso altri, sempre in contatto con le stratificazioni architettoniche e storiche, come l’ambiente urbano e il panorama di Napoli».
Ma forse le altre mostre presso gli stessi castelli non offrivano questi medesimi “Dialoghi”? Si è sfruttato questo titolo altisonante per una mostra allestita in sale in cui i napoletani sono da tempo abituati a vedere le mostre d’arte contemporanea. Si è forse scelto perché l’esposizione dei sei artisti non sembra avere alcun elemento comune se non il fatto che tutti i lavori — naturalmente non realizzati per gli spazi in cui sono mostrati (almeno a giudicare dalle date sulle didascalie), — sono stati adattati agli ambienti espositivi dei due castelli, che, tra l’altro, sono modernizzati e imbiancati come fossero sale di una galleria (quelle che Barzel chiama White-Cube)? Il Comune ha investito in una grande esposizione con l’intento di mostrare la vivacità culturale che caratterizza la città da diversi anni col rischio di manifestarne invece un provincialismo culturale. Naturalmente il giudizio fondamentalmente negativo sulla mostra non può estendersi all’interesse suscitato dalle opere di ogni singolo artista.
Katharina Sieverding mette in mostra dei giganteschi autoritratti del suo viso: il suo sguardo è “intenso, allarmante, allertante ” non solo per l’atteggiamento espressivo ma anche per l’accostamento di queste ad altre fotografie (tra cui ritratti di veri e propri teschi) che mettono in rapporto la sua/nostra esistenza con i disastri e le ingiustizie del nostro tempo.
Patrick Raynaud in una sala al piano inferiore del Castel dell’Ovo ha riempito una serie di vasche significativamente di sola luce colorata, ognuna di un colore diverso: “Luce come significato e contenuto!”
Gli autoritratti “mossi” di Daniela di Lorenzo comunicano il dubbio della ricerca della propria identità; dubbio accentuato ancor più da una serie di oggetti in feltro, che eludono qualsiasi tentativo di classificazione: l’inconsistenza della loro rappresentazione figurativa non fornisce le caratteristiche complete degli elementi realistici cui sembrano fare riferimento.
Molto contrastanti le due installazioni di Vittorio Messina. Al Castel dell’Ovo ha esposto l’alienante ricostruzione di un appartamento in cui la semplicità degli arredamenti fa diretto riferimento agli interni ospedalieri e dove dalla unica via di fuga, una finestra, si possono vedere un numero impressionante di aerei in cielo il cui frastuono e numero supera quello degli uccelli in volo. Inconsciamente l’ambiente fa venire in mente una zona di guerra. Al Castel Nuovo, invece, ha dato vita ad una ironica sublimazione della vita quotidiana costruendo un ambiente il cui arredamento è composto completamente di tazze di gabinetto.
Olafur Eliasson, con dei proiettori luminosi ha creato su una parete completamente bianca (sic) degli spazi architettonici virtuali, giocando con le abitudini visive degli osservatori a guardare prospetticamente. Una versione luminosa di ciò che Giulio Paolini faceva con i ritagli di carta.
Fabrizio Plessi ha riprodotto nel lavoro Fez-Fez delle enormi vasche per la tintura della lana rossa, tipiche della città marocchina. Com’è consuetudine per l’artista, al posto dl liquido vi sono dei monitor che ne riproducono gli effetti di movimento. Una musica di sottofondo accentua l’ispirazione alla cultura araba.
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pienamente d'accordo con izzolino. mostra senza colonna vertebrale. peccato, amnon!
...insomma, io l'ho vista e mi è sembrata un pò "misera"!!!