Fuzzy. La parola è graziosa, vagamente onomatopeica. Sembrerebbe un neologismo trendy, invece è la logica approssimata, “sfocata” e polivalente, sulla quale
Sarah Ciracì (Grottaglie, Taranto, 1972; vive a Milano e New York) ha modellato la sua nuova personale.
Mostra in cui la tecnologia è l’
argomento, ma senza osanna né condanna. Piuttosto, secondo uno spirito curioso e sperimentale, che tiene un piede in studio e uno in laboratorio. All’Iit di Genova l’artista ha infatti “conosciuto” iCUB, un bimbo robot di quattro anni, messo in posa su una seggiola di plexiglas trasparente, trono moderno per un principino del futuro. Per immortalarlo degnamente, è stato allestito un set foderato di sontuosi drappi, con tanto di cane accucciato ai piedi, che emula la classica iconografia dei ritratti regali. Un mix tra foto e pittura, quasi per “umanizzare” il soggetto, con un riferimento alla tradizione.
Assimilano poi le connessioni tra gli elementi tecnologici alla potente rete di relazioni neuronali, similmente gran collettori e trasmettitori di informazioni, i due eleganti mandala –
Elettronica-mente e
Neural Network – realizzati con circuiti elettronici stampati su vetronite e rame. L’uso della tipica composizione buddhista stimola l’interrogativo: misticismo
stricto sensu o mistica del progresso? “
Non credo si tratti di una religione delle scienze”, replica Ciracì, “
quanto di un nuovo bisogno di creare un ponte tra scienza e filosofia, di creare una scienza più umana”.
Sarà per questo che dai cyber-cervelloni si passa alla materia grigia vera. Già visto nella precedente personale partenopea, l’acrilico fluorescente “bombardato” dai flash violetti svela in modo intermittente il profilo della massa encefalica. Nient’altro che questo,
Un oscuro scrutare, nella seconda tranche espositiva. Una solitudine simbolica, non tanto perché fiocchino gli esempi quotidiani di chi spesso e volentieri deroghi all’attività cerebrale, ma perché questa risulta in ogni caso pressoché ignota, condannata a essere intuita piuttosto che profondamente compresa. Il paradosso è che, mentre si continua a ignorare una consistente parte dell’intelligenza naturale, ci si affanna per crearne una artificiale.
D’altra parte, la contraddizione è insita nella natura stessa di un progetto che elabora un discorso tecnologico attraverso un
saper fare molto artigianale, e vive scopertamente di una discordanza tra forme e contenuti. In ciò riflettendo sottilmente sull’incongruenza quotidiana tra l’impiego di invenzioni sempre nuove e la sostanziale ignoranza dei loro meccanismi.