Sergio Vega, di origine argentina ma trasferitosi nel sud degli Stati Uniti per motivi di lavoro, è stato universalmente benedetto dalla folla oceanica che si è riversata a Venezia nel corso della passata edizione della Biennale. La sua installazione alle Corderie dell’Arsenale ricreava un piacevole ambiente tropicale dove la gente si ristorava tra una tappa forzata e l’altra di una delle mostre più dislocate mai prodotte dall’ente veneziano. Vega ha la capacità di ribaltare tutti i luoghi comuni sui tropici, di guardare aldilà della gradevole facciata turistica conosciuta nel mondo per cercare quelli che sono i presupposti di una cultura comune a tutto il Sud America. Il problema dell’integrazione nel contesto economico e tecnologico si è posto prima di tutto, e in termini più precisi, per l’architettura e il design industriale. La progettazione estetico-industriale che nei paesi in via di sviluppo è praticamente nulla, in quelli capitalisti è invece accuratissima: appoggiata su metodiche analisi di mercato e su precisi accertamenti psicologici e sociologici. È dunque indispensabile studiare gli sviluppi della ricerca estetica in relazione a situazioni concrete. Il problema che Vega si propone di affrontare è quindi di natura intellettuale: riguarda il rapporto tra cultura e potere. Le origini di questo rapporto sono per lui da ricercarsi nelle prime cronache che descrivono la scoperta del Nuovo Mondo e in particolare quella di Antonio De Leon Pinelo, consigliere portoghese del re di Spagna. Alla visione storica e nostalgica dei primi esploratori che credevano di aver trovato il mondo favoloso di Eldorado, il giardino dell’Eden sulla terra, l’artista contrappone il paradosso della situazione attuale: le megalopoli prive di pianificazione, la mancanza di studio dei sistemi di comunicazione, l’arresto della ricerca estetica.
Nel corso di un viaggio, che ha ripercorso a tappe un itinerario che attraversa i diversi paesi del Sud America, Vega ha tratto alcuni scatti e fatto delle considerazioni sotto forma di cronaca diaristica. All’ingresso della mostra, su una parete dipinta a vivaci colori, c’è la foto di un edificio frutto della speculazione immobiliare in cui è più che mai evidente la dissociazione tra forma e qualità estetica. L’architettura, ispirata al razionalismo europeo, è interamente dipinta con i colori del piumaggio di un pappagallo, per renderla più fruibile esteticamente, per fare in modo che l’individuo possa riconoscersi e integrarsi. È quello che l’artista ha ribattezzato con il termine Modernismo tropical, una visione eccessiva e barocca che reinterpreta il minimalismo e il concettualismo dell’arte dei paesi a capitalismo avanzato.
Nei due video in mostra è la natura che prende il sopravvento su tutto. Su uno degli schermi c’è un volo di farfalle che si alzano dalla sponda del fiume dopo essersi abbeverate; l’effetto è astratto, la sua ripetizione crea un ritmo lieve, quasi musicale. Sulla parete di fronte, un secondo video mostra l’assalto delle formiche ad un pezzo di sapone lasciato nella doccia: l’uomo imita la natura con il sapone al sapore di frutta, ma la natura è più forte e se ne riappropria. Nella stanza successiva sono esposte le foto scattate sui sentieri che attraversano il Mato Grosso sulle tracce del mito.
Sono il frutto di una racconto “epistemologico” dove c’è una perfetta coincidenza tra il pensare per immagini e il pensare per concetti, tra la via che il mito dischiude e il metodo che la logica persegue. C’è una connessione tra filosofia e mitologia, che oltre a restituire la verità sull’essenza dei luoghi, dischiude quella molteplicità dei registri espressivi, tra loro intercambiabili e complementari, in cui la parola antica trova la sua autentica sorgente espressiva.
maya pacifico
mostra visitata il 9 maggio 2006
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