Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
23
aprile 2008
fino al 9.V.2008 Tue Greenfort Napoli, Fondazione Morra Greco
napoli
È buio e umido, nel ventre del cuore antico di Napoli. Dove si sentono sbattere le onde. Ubriachi di mare, ma forse troppo sazi del resto. Un Canto delle Sirene dal più “berlinese” dei collezionisti partenopei...
di Anita Pepe
Non ha paura di strafare Tue Greenfort (Holbäk, 1973; vive a Berlino), che al terzo appuntamento della Foundation Morra Greco opta per uno sfruttamento intensivo degli spazi e, dalle cantine al primo piano del bel palazzo secentesco, sparpaglia una mostra “enciclopedica” ma con qualche difetto di rilegatura, e non del tutto site specific, vista l’eco della collettiva torinese Greenwashing nel cassonetto tagliato e riassemblato che -opportuna precisazione- non ha niente da spartire con la trista cronaca partenopea.
Pezzo forte, l’installazione sonora che tramuta l’interrato in una spelonca marina, pervasa dalla risacca. È il Canto delle Sirene registrato a Punta della Campanella, deriva ipogea cui abbandonarsi sciogliendo la cera dei sensi. Un’avviluppante regressione omerica e intrauterina, cui converrebbe il talento del narratore, piuttosto che il piglio -e il puntiglio- recensorio. Che invece, per mestiere, deve trovare un filo conduttore: e questo si dà nell’acqua, raccolta dal condensatore giustificato come improbabile “parte integrante” dell’opera; distillata, imbottigliata e messa in vetrina come avvelenata protesta contro la sua lucrosa commercializzazione; infine fotografata, coi suoi riflessi galleggianti come mucillaggini ramate, per documentare l’esperienza sorrentina.
A seguire, ambientalismo e ambiente. L’uno nell’accoppiata fra il negletto design tricolore e le lampadine danesi a basso consumo, riferimento ai temi dell’ecosostenibilità tipici della cultura nordeuropea. L’altro nell’ipotesi di biblioteca costruita riciclando i pannelli del passato environment dedalico e orfico di Gregor Schneider (incorniciandone, per sovrappiù, le muffe).
Chiose pleonastiche, note a margine incongruamente impoetiche rispetto a un progetto incalzato, non si sa se per gratitudine stacanovista o per genuino fuoco creativo, dall’ansia di partecipare il frutto dei tre mesi di residenza. Sicché la produzione appare copiosa ma disorganizzata e, pur non vincolata da contratto al genius loci, invece di ritenersi appagata dall’asciutta e potente seduzione del vuoto (più in linea con l’assetto rigoroso della “Foundation”), brancola nel tentativo di comprendere una città unica e plurima.
E che sia invasione o integrazione quella che ha investito anche Napoli è il sottinteso di una “sacra” famiglia da far gola a un redivivo tandem Engels-Marx: madre, padre e figlio cinesi vestiti all’occidentale, bancarella couture prodotta da loro e razziata dagli italiani, in un’opportunistica pace tra poveri che se ne impipa di lavoro nero e concorrenza sleale.
Sotto la fioca lanterna rossa (unica concessione etnica), i meteci del villaggio globale diventano a loro volta spettatori della metropoli adottiva, battuta con intenzionale dilettantismo da Greenfort sulle orme dei Cani del sindaco, protagonisti del video “etnografico” in cui l’artista striscia dal centro alla periferia assimilandosi ai randagi, celebrità locali e involontari ciceroni. Diogene alla ricerca dell’uomo, in un’intermittente prospettiva dal basso.
Un gioco a rimpiattino, dalle cantine al piano nobile.
Pezzo forte, l’installazione sonora che tramuta l’interrato in una spelonca marina, pervasa dalla risacca. È il Canto delle Sirene registrato a Punta della Campanella, deriva ipogea cui abbandonarsi sciogliendo la cera dei sensi. Un’avviluppante regressione omerica e intrauterina, cui converrebbe il talento del narratore, piuttosto che il piglio -e il puntiglio- recensorio. Che invece, per mestiere, deve trovare un filo conduttore: e questo si dà nell’acqua, raccolta dal condensatore giustificato come improbabile “parte integrante” dell’opera; distillata, imbottigliata e messa in vetrina come avvelenata protesta contro la sua lucrosa commercializzazione; infine fotografata, coi suoi riflessi galleggianti come mucillaggini ramate, per documentare l’esperienza sorrentina.
A seguire, ambientalismo e ambiente. L’uno nell’accoppiata fra il negletto design tricolore e le lampadine danesi a basso consumo, riferimento ai temi dell’ecosostenibilità tipici della cultura nordeuropea. L’altro nell’ipotesi di biblioteca costruita riciclando i pannelli del passato environment dedalico e orfico di Gregor Schneider (incorniciandone, per sovrappiù, le muffe).
Chiose pleonastiche, note a margine incongruamente impoetiche rispetto a un progetto incalzato, non si sa se per gratitudine stacanovista o per genuino fuoco creativo, dall’ansia di partecipare il frutto dei tre mesi di residenza. Sicché la produzione appare copiosa ma disorganizzata e, pur non vincolata da contratto al genius loci, invece di ritenersi appagata dall’asciutta e potente seduzione del vuoto (più in linea con l’assetto rigoroso della “Foundation”), brancola nel tentativo di comprendere una città unica e plurima.
E che sia invasione o integrazione quella che ha investito anche Napoli è il sottinteso di una “sacra” famiglia da far gola a un redivivo tandem Engels-Marx: madre, padre e figlio cinesi vestiti all’occidentale, bancarella couture prodotta da loro e razziata dagli italiani, in un’opportunistica pace tra poveri che se ne impipa di lavoro nero e concorrenza sleale.
Sotto la fioca lanterna rossa (unica concessione etnica), i meteci del villaggio globale diventano a loro volta spettatori della metropoli adottiva, battuta con intenzionale dilettantismo da Greenfort sulle orme dei Cani del sindaco, protagonisti del video “etnografico” in cui l’artista striscia dal centro alla periferia assimilandosi ai randagi, celebrità locali e involontari ciceroni. Diogene alla ricerca dell’uomo, in un’intermittente prospettiva dal basso.
Un gioco a rimpiattino, dalle cantine al piano nobile.
articoli correlati
Tue Greenfort alla Biennale di Liverpool 2008
anita pepe
mostra visitata l’8 marzo 2008
dall’otto marzo al 9 maggio 2008
Tue Greenfort – The Foundation
a cura di Luigi Fassi
Fondazione Morra Greco
Largo Proprio d’Avellino, 17 (centro storico) – 80138 Napoli
Orario: da lunedì a venerdì ore 10-14
Ingresso libero
Info: tel +39 3336395093; info@fondazionemorragreco.com; www.fondazionemorragreco.com
[exibart]