Non ha paura di strafare
Tue Greenfort (Holbäk, 1973; vive a Berlino), che al terzo appuntamento della
Foundation Morra Greco opta per uno sfruttamento intensivo degli spazi e, dalle cantine al primo piano del bel palazzo secentesco, sparpaglia una mostra “
enciclopedica” ma con qualche difetto di rilegatura, e non del tutto site specific, vista l’eco della collettiva torinese
Greenwashing nel cassonetto tagliato e riassemblato che -opportuna precisazione- non ha niente da spartire con la trista cronaca partenopea.
Pezzo forte, l’installazione sonora che tramuta l’interrato in una spelonca marina, pervasa dalla risacca. È il
Canto delle Sirene registrato a Punta della Campanella, deriva ipogea cui abbandonarsi sciogliendo la cera dei sensi. Un’avviluppante regressione omerica e intrauterina, cui converrebbe il talento del narratore, piuttosto che il piglio -e il puntiglio- recensorio. Che invece, per mestiere, deve trovare un filo conduttore: e questo si dà nell’acqua, raccolta dal condensatore giustificato come improbabile “parte integrante” dell’opera; distillata, imbottigliata e messa in vetrina come avvelenata protesta contro la sua lucrosa commercializzazione; infine fotografata, coi suoi riflessi galleggianti come mucillaggini ramate, per documentare l’esperienza sorrentina.
A seguire, ambientalismo e ambiente. L’uno nell’accoppiata fra il negletto design tricolore e le lampadine danesi a basso consumo, riferimento ai temi dell’ecosostenibilità tipici della cultura nordeuropea. L’altro nell’ipotesi di biblioteca costruita riciclando i pannelli del passato
environment dedalico e orfico di
Gregor Schneider (incorniciandone, per sovrappiù, le muffe).
Chiose pleonastiche, note a margine incongruamente impoetiche rispetto a un progetto incalzato, non si sa se per gratitudine stacanovista o per genuino fuoco creativo, dall’ansia di partecipare il frutto dei tre mesi di residenza. Sicché la produzione appare copiosa ma disorganizzata e, pur non vincolata da contratto al
genius loci, invece di ritenersi appagata dall’asciutta e potente seduzione del vuoto (più in linea con l’assetto rigoroso della “Foundation”), brancola nel tentativo di
comprendere una città unica e plurima.
E che sia invasione o integrazione quella che ha investito
anche Napoli è il sottinteso di una “sacra”
famiglia da far gola a un redivivo tandem Engels-Marx: madre, padre e figlio cinesi vestiti all’occidentale, bancarella couture prodotta da loro e razziata dagli italiani, in un’opportunistica pace tra poveri che se ne impipa di lavoro nero e concorrenza sleale.
Sotto la fioca lanterna rossa (unica concessione etnica), i meteci del villaggio globale diventano a loro volta spettatori della metropoli adottiva, battuta con intenzionale dilettantismo da Greenfort sulle orme dei
Cani del sindaco, protagonisti del video “etnografico” in cui l’artista striscia dal centro alla periferia assimilandosi ai randagi, celebrità locali e involontari ciceroni. Diogene alla ricerca dell’uomo, in un’intermittente prospettiva dal basso.
Un gioco a rimpiattino, dalle cantine al piano nobile.