Tutte le strade portano a Torre del Greco. Almeno quelle del corallo. È da dodici anni, infatti, che Palazzo Vallelonga, edificio vanvitelliano sul Miglio d’oro caro all’aristocrazia settecentesca, nel cuore della città famosa per la lavorazione dell’“oro rosso”, ospita mostre dedicate alla pietra che non è una pietra. E se il taglio delle sei proposte precedenti era stato decisamente etnico, con viaggi in Uzbekistan, India, Mongolia e Yemen, l’approccio si fa ora storico e il sapore esotico prende un gusto decisamente più familiare.
In primo luogo, perché l’obiettivo si stringe sul Barocco, il più meridionale tra i secoli, attecchito in un Sud dove tutto, nel bene e nel male, parlava e parla di enfasi, opulenza, ridondanza. E la “
meraviglia” mariniana qui si mostra senza freni, dallo scrigno da scrittura al
Trionfo di Apollo. Oggetti dotati di un valore intrinseco, ma carichi altresì di significati e rimandi apotropaici, rituali e, non da ultimo, artistici. Se, infatti, ricami, intarsi, intagli e incastonature potrebbero semplicemente condurre alla lode di straordinarie capacità artigianali, il gusto del modellato e l’equilibrio degli accostamenti esulano da una produzione semplicemente “banausica” e si affacciano legittimamente alle soglie delle arti, contestando la gerarchizzazione tra “maggiori” e “minori”.
Applicate, questo sì, visto che all’epoca il corallo veniva impiegato, e con una certa prodigalità, più come elemento decorativo o scultoreo che per foggiare gioielli.
Abbondano perciò nel percorso suppellettili sacre e profane: ostensori incorniciati da raggiere fiammanti (tra cui uno, curiosissimo, a forma di cuore), capezzali con santi e madonne, acquasantiere, crocifissi, altaroli, calici e paliotti (notevole, per ricchezza d’ornato e soluzioni prospettiche, quello di
San Francesco di Paola che attraversa lo Stretto di Messina); ma anche saliere, calamai, una coppia di pavoni.
Una varietà che rimanda a un altro aspetto, che conferisce unità e pregnanza al progetto espositivo. Che è quello del sincretismo religioso e dell’ibridazione interculturale, fioriti e sviluppatisi nella culla del Mediterraneo e generati, paradossalmente, da una lunga e travagliata vicenda di migrazioni, talvolta coatte, e discriminazioni. Questi (capo)lavori, creati prevalentemente per il mondo cristiano, sono infatti in debito verso arabi ed ebrei: furono questi ultimi ad affinare le tecniche manifatturiere, apprese nel Medioevo alla corte di Federico II, autentico coacervo di civiltà orientali e occidentali, e a divulgarle sulle coste di Genova, Livorno e del Regno di Napoli in seguito alla violenta e intransigente politica antisemita attuata in Spagna e in Sicilia sotto i cattolicissimi Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia nel 1492.
Anno in cui si schiusero le porte del Nuovo Mondo, mentre il Vecchio bruciava e si disperdeva in un clima di fanatismo e intolleranza. Pericolosamente ricorrente, tanto da ridurre il concetto di coesistenza pacifica a scomoda chimera d’una presunta modernità.