D.O.C. e ad hoc è la sensualità che trasuda dai lavori di
Martin Soto Climent (Mexico City, 1977). Scaturita dal soggiorno partenopeo dell’artista, giunto a Napoli mesi addietro in cerca d’ispirazione, per poi ritornarsene a casa gravido di suggestioni a cui dar forma.
Opere concepite in loco e appositamente pensate per lo spazio espositivo. Il suggello d’autenticità del “prodotto” è un bacio a timbro, stampato col rossetto sulla vetrata fronte strada. Appartiene alla compagna dell’artista, le cui tracce sono disseminate ovunque, a suggerire una presenza corporea ma non invadente, un erotismo più sussurrato che ostentato. A sublimare l’idea di questa latente pulsione è una tenda da doccia che pende dal soffitto su cui, con effetto vedo-non vedo, sono impresse le impronte dei loro corpi nudi. Indiscutibilmente legata all’iconografia tutta meridionale dei “panni stesi”, ma la cui matrice è meno folk e più erudita, poiché nasce dal ricordo del
Grande Vetro di
Duchamp.
E non solo per la sua trasparente verticalità, ma per quel fremito che nell’opera del francese fa vibrare la sposa e i suoi scapoli.
Più lampante l’empatia che s’instaura fra i due amanti nei jeans agganciati alla parete, dalla cui patta fa capolino un décolleté rosso. Oggettuale ibridazione dal sapore un po’ glam, che palesa con schiettezza una totalizzante complicità fisica e mentale. “
In una relazione conta l’idea che noi stessi costruiamo dell’altro, un’idea che non corrisponde alla realtà, ma che è filtrata dalla nostra personale percezione”. Come a dire che le cose si fanno in due, che l’immagine finale è sempre il risultato di un’osmosi tra diversi elementi, uno esterno e l’altro interno, come rammentano quei pantaloni posti a “vita in giù” sul pavimento, ripiegati in dentro all’altezza del ginocchio. Impossibile non scorgervi la sagoma del Vesuvio, e dunque un’introspezione trattenuta ma pronta alla deflagrazione.
Ciò che interessa all’artista è creare piccoli nuclei di energia, un dinamismo scultoreo che è già insito nella scelta dei materiali, oggetti vissuti, carichi di una storia personale che va preservata. Di certo avvolgere un mucchio di scarpe femminili nella pellicola potrebbe far pensare a una pratica fetish; eppure, a guardar bene, quelle calzature sotto vuoto raccolgono e raccontano una vicenda sottratta all’oblio. E lo stesso può dirsi dello slip imbottigliato, un intimo messaggio tutelato dall’involucro, ma lanciato in un viaggio senza mete predefinite.
Discorso che resta volutamente aperto a ogni possibile interpretazione, che gioca continuamente col senso e coi sensi, coinvolti nello sconfinamento verso la tridimensionalità di quattro tele bianche doppiamente “rivestite”: dal cellophane del packaging e da mutandine in tensione. Richiamo a
Lucio Fontana, da cui Martin mutua il gesto del taglio. Solo che lo squarcio è prodotto sull’imballaggio, che funge da membrana protettiva della tela, ed è celato dietro di essa.
Spazialismo
al contrario, ammorbidito, attutito, poiché quell’azione avrebbe mimato e violato troppo esplicitamente l’anatomica intimità muliebre. Che invece vuole restare un sottinteso simbolo di continua rinascita. Suggerito dal bisbiglìo d’una città sempre in bilico, tra morte e resurrezione.