Lui che nel futuro c’è già stato, sembra avere una gran voglia di tornare al passato. Prova provata i palcoscenici istituzionali, e tutti con una forte impronta storica, sui quali
Christian Leperino (Napoli, 1979) si è esibito negli ultimi sei mesi: il Museo di Palazzo Poggi a Bologna e, a Napoli, il Museo dell’Università Suor Orsola Benincasa e quello mineralogico dell’Università “Federico II”.
Un robusto fil rouge lega dunque i lavori più recenti del prolifico partenopeo, il quale pare ormai saggiamente deciso a svestire l’abito di artista “di periferia” con cui è emerso e a incamminarsi verso una maturazione che, pur conservando temi angolari come la corporeità, li stempera in una più acculturata e semplice consapevolezza, oltre il quotidiano territoriale, la truculenza e i tribalismi di un tempo.
Fuori dalle t(r)endenze attuali, vedi la corsa ad allestire archivi, Leperino insiste col
mestiere, cosa che del resto ha sempre fatto, a partire dalla produzione pittorica che tante soddisfazioni (anche commerciali) gli ha dato.
Ma, laddove due anni fa alla NotGallery dominavano il grigiore degli infestati
cityscape suburbani e il “metallo urlante” della gioventù arrabbiata e reietta, la sala stavolta s’illumina col silenzioso candore della cera. Materia antica, comune a scultori e anatomisti, e dinamica, da opporre alla staticità della pietra.
La mostra si propone, infatti, come prosecuzione della performance tenutasi lo scorso maggio al Museo mineralogico, dove l’idea di plasmabilità aggrediva la cristallizzazione del luogo. Prosecuzione, e non mera propaggine documentaria (limitata alla proiezione di un video dell’azione), di un progetto che in scala ridotta continua a interpretare, moltiplicandola, la leggenda ebraica del Golem, antesignano dei moderni robot. Un cyborg
ante litteram, estratto da una dimensione sacra ed esoterica, per ammonire contro la tracotanza umana e sottolineare il potere, benedetto e perverso, dell’arte.
E se fra le venerande bacheche della raccolta accademica Leperino ergeva un colosso d’argilla, in galleria modella una serie di piccoli e disciplinati replicanti. Se nel museo si sporcava le mani scavando un buco nel torace del mastodontico
kouros, ora i suoi umanoidi portano vari minerali sul petto, come medaglie.
Non tutte le pietre però assumono la funzione vivificatrice che nel mito originario aveva la parola “
emet” (‘verità’) tracciata sulla fronte del Golem: uno di questi Adamo fai-da-te è intonso, isolato in una teca, preservato dagli altri e da se stesso.
Così come intatto rimane il refrattario dov’era fluito il calore di una statuina in alluminio: l’artista ha preferito annullare
in extremis la prevista performance che avrebbe liberato la forma (illustrata dal wall drawing all’ingresso), dando così una sterzatina concettuale a un’operazione prevalentemente
fisica. Vendetta del Museo Mineralogico, col suo sguardo di Medusa.