13 aprile 2006

fino all’1.V.2006 The children of Uranium Napoli, Pan

 
La paura fa 92. Come il numero atomico dell’Uranio, in un dramma multimediale che attraversa tre secoli. Un percorso inter (e radio) attivo, che si snoda come una reazione a catena e deflagra nelle installazioni…

di

Lo spettro dell’Apocalissi s’aggira per la Terra? Sono i Figli dell’Uranio di Saskia Boddeke e Peter Greenaway a rimestare nell’immaginario collettivo una minaccia che, tramontata la Guerra Fredda, accantonata Chernobyl, dimenticate le esplosioni francesi a Mururoa e il vertice di Pratica di Mare, pareva essere diventata anacronistica e mediaticamente poco interessante. Almeno fino all’ennesima variante dello “scontro di civiltà”: il braccio di ferro Usa-Iran sul riarmo nucleare.
Sicché ben s’aggancia all’attualità il memento lanciato da questo mix di teatro, musica, danza e installazione strutturato in forma di loop, che evidenzia il carattere flessibile di Palazzo Roccella e pone un’ulteriore questione: se l’allestimento concepito per la pièce possa o meno ritenersi opera d’arte autonoma, fruibile indipendentemente dalla messinscena. In tal senso, pur con qualche ridondanza e banalità, appaiono innegabili l’icasticità e l’efficacia didattica delle installazioni, che si snodano dall’atrio al piano nobile, plasmando gli ambienti in base alle peculiarità individuate per ciascuno degli otto rampolli uranidi, ambasciatori di una visione perlopiù pessimista, per cui ogni rivoluzione scientifica pare destinata a degenerare in terrore.
Tutto ebbe inizio, al solito, con una mela. Pericolosa e invitante. Simbolo ubiquo, legato tanto all’albero biblico della conoscenza (e quindi alla scelta tra il Bene e il Male) quanto ad Isaac Newton, l’occhio del ciclone –recita il libretto– che caricò la molla di un universo ad orologeria e che, presentendo un nuovo diluvio, se ne sta rintanato in una specie di carpenteria a ricostruire l’Arca. Docce lustrali e pentole colme, flebo e lavabi ribadiscono che il mondo fa acqua da tutte le parti.
Saskia Boddeke-Peter Greenaway, The Children of Uranium, la stanza di Marie Curie
Goccia a goccia, incubi e fantasmi piovono nel mausoleo di Mikhail Gorbaciov. Al centro, una bara imbottita di raso bianco. Intorno, abiti e accessori femminili, sedie apparecchiate per una veglia funebre. Ma quali esequie officia il profeta della perestrojka? Quelle dell’amata Raissa, o quelle di un impero e di un ideale? Nessun riconoscimento gli deriva dall’aver alzato a mani nude quella cortina di ferro che, invece, non s’aprì manco dopo le picconate assestate da Krusciov al mito di Stalin. Nello stambugio del rozzo Nikita, la scarpa sbattuta sul tavolo dell’Onu, una brandina militare, l’immancabile ritratto di Lenin e un massiccio telefono, come quello che dovette diventare rovente al tempo della crisi dei missili. Sarebbe bastato all’epoca -e oggi?- schiacciare il famigerato bottone per scatenare la catastrofe atomica contro la quale nel ’55 si scagliò il manifesto di Albert Einstein, steso, insieme a Bertrand Russell, forse proprio su quella scrivania zeppa di libri, carte, tazze e tazzine, tipica del “genio al lavoro”.
Straripa di ferri del mestiere pure la celletta della vestale Marie Curie, che tra pareti blu cobalto fonde vita privata e studi matti, disperatissimi e letali. Un Eden giallo limone separa la martire dal boia: Robert Oppenheimer, papà di “Little boy” (come fu battezzato l’ordigno sganciato su Hiroshima). Tetra l’atmosfera del suo bunker foderato d’acciaio, in cui cigola solitaria una sedia a dondolo e, in fondo, si staglia il piccolo cimitero dei bimbi straziati dai “funghi” velenosi.
Stanza Gorbaciov, Saskia Boddeke-Peter Greenaway, The Children of Uranium, la stanza di Mikhail Gorbaciov
Forse gli stessi che il delirante George W. Bush e la sua plastificata first lady mescolano ai ritratti ufficiali e alle foto di famiglia di cui è tappezzato lo studio presidenziale (e poco importa se quel barile di petrolio-sangue stona con l’arredamento!), ben più rifinito della rustica camera di Joseph Smith, il mormone che nello Utah scoprì quel giacimento d’uranio dal quale si sarebbe innescata la micidiale reazione a catena. Perché nessuna azione è senza conseguenze. E il countdown è già cominciato. Tick-tock-tick-tock…

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www.tulselupernetwork.com

anita pepe
mostra visitata il 5 aprile 2006


Saskia Boddeke e Peter Greenaway, “The children of uranium”. Musiche di Andrea Liberovici. Pan, Palazzo Arti Napoli, via dei Mille 60 (quartiere Chiaia), 80122 Napoli. Spettacoli fino al 17 aprile. Dal 18 aprile al 1 maggio visitabili le installazioni e proiezione del film “Le valigie di Tulse Luper”. Catalogo Charta. Info: 081.7958605/6. E-mail: info@palazzoartinapoli.net. Website: www.palazzoartinapoli.net . Biglietti: 8 € per le rappresentazioni, 3 € per la mostra. Martedì chiuso

[exibart]

2 Commenti

  1. Interessanti riferimenti storiografici e di politica attuale,sulla follia del potere.Analisi condivisibile sulla ricerca e le sue possibili ma non inevitabili conseguenze.stanze di memoria di un presente /passato -futuro! -Complimenti-

  2. Intrigante la lezione sulla storiografia del potere e la sua relazioni con l’utilizzo delle tecnologie applicate-Interessante inoltre l’esperimento delle ambientazioni allestite al Pan da parte degli artisti-come una sospensione sul tempo-bravissima Anita -grazie-

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