Stavano scavando un pozzo, e saltò fuori il Teatro. La scoperta di Ercolano fu un caso. Che scosse l’Europa. Al punto che i re di Napoli Carlo III di Borbone e sua moglie Maria Amalia, per cogliere prontamente i preziosi frutti delle campagne archeologiche avviate nel 1738, si fecero costruire una Reggia nella vicina Portici.
Da allora sono passati quasi tre secoli e la città annientata dall’eruzione del 79 d.C. continua a essere – finanziamenti permettendo (ma gli annunci ufficiali della Regione assicurano l’arrivo di trenta milioni di euro) – un pozzo senza fondo, se è vero che risale allo scorso anno il ritrovamento di un viluppo di materiali organici, tra cui un pezzo di tessuto. Rarità visibile per la prima volta in un percorso interamente dedicato alla “sorella minore”, ma più raffinata e colta, della plebea Pompei, che la leggenda voleva fondata direttamente dal semidio delle dodici fatiche.
Onesta e “popolare”, la mostra s’impone subito, fin dall’ingresso, per quantità. Purtroppo. Perché l’ansia di riconsegnare, dopo anni di desolazione e “mobilità”, il maestoso atrio dell’ex Palazzo degli Studi alla destinazione espositiva genera il meno auspicabile degli effetti: i
l sovraffollamento. Aumentato dalla riproposizione di una modalità usata per alcuni eventi precedenti nel Salone della Meridiana: quella dei pannelli separatori che, pur utili didatticamente, anziché valorizzare sacrificano bronzi e marmi, mescolati con un impatto visivo non sempre convincente in un allestimento compatto e “cunicolare”.
Dominato dai reperti di Villa dei Papiri è il nucleo centrale, intorno al quale, sotto i riflettori della ribalta, si articolano le gallerie “de viris illustribus” e delle divinità. Tra i potenti, effigi di imperatori e imperatrici rinvenute nel Teatro: figure loricate o eroicamente nude, ammantate di pepli e stole, che della loro curiosa sproporzione fanno un
umano punto di forza, svelando la fallibile perfezione degli
auctores. I toni – e le luci – si smorzano al primo piano, dove il breve corridoio dedicato ai morti senza nome conduce, superate scenografiche “barriere” di frange nere, sul trionfo della morte: scheletri disseminati nella melma pietrificata, a memoria di una fine orribile.
È chiaro che i pezzi forti sono al pianterreno. Dove tra erme, iscrizioni, pitture, bronzetti e meravigliosi bassorilievi dallo stile arcaizzante, soffocano capolavori custoditi nel museo, inediti (la splendida Demetra) o “disseppelliti” dal negletto Antiquarium nel sito di Ercolano (che, stando alle promesse, dovrebbe riaprire alla fine del 2009). Una monumentalità e una bellezza che avrebbero bisogno di ben altri spazi per “respirare” ma che, in ogni caso, mozzano il fiato.
Perché queste sculture, destate da un sonno impietrito di fango e lava,
vivono. Bucando e sciogliendo i nostri coi loro occhi remoti. Chi dubiterebbe che i corridori dai corpi nervosi, seppur seminascosti dalle statue equestri del munifico
patronus Nonio Balbo, non siano pronti a scattare? Chi si stupirebbe se le aggraziate coreute accennassero da un momento all’altro un passo di danza? Il miracolo delle antichità ercolanesi forse sta allora non tanto nella loro resurrezione, quanto in questa insondabile, commovente capacità di comunicare dal silenzio dei secoli.
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Straordinaria. Come sempre. È un piacere leggerti.
gentilissima sig.ra a. pepe ho avuto modo di visitare questa mostra trovandola di ottimo livello e ben presentata, del resto le opere presenti testimoniano un passato di gran fascino! mi è piaciuto come lei ha presentato questo evento con penna felice e solo apparentemente semplice, con stima
r.m.